L’ex capo dei servizi segreti rivela: “Netanyahu ha vinto, Israele perso”

L’eroe di tutte le vittorie storiche di Israele, il commando pluridecorato, l’ex ammiraglio, l’ex capo dei servizi segreti interni (Shin Beth), la voce fuori dal coro della politica dello Stato ebraico, insomma Amichai Ami Ayalon, 72 anni, adesso lo si trova qui, alla Beit Akim, la Casa di Akim, l’organizzazione che in tutto il Paese assiste circa 135mila bambini con disabilità mentali. Ayalon fa il volontario e se dopo una vita passata a combattere è diventato buono, certo non è diventato buonista.

Quando borbotta per la telecamera e gli dico “ma come, una spia dovrebbe essere anche un bravo attore”, lui replica: “No, come spia sono un bravo bugiardo”. Non risparmia nulla a nessuno, Ayalon. Neanche a se stesso. Neanche al proprio popolo.

Così, quando dico che a un osservatore esterno sembra che Israele, in particolare l’Israele di Bibi Netanyahu, abbia ormai vinto su tutta la linea il lunghissimo confronto con i palestinesi, lui replica: “Netanyahu forse ha vinto ma noi israeliani abbiamo perso”. E spiega: “I miei genitori venivano dalla Transilvania ed emigrarono in Palestina negli anni Trenta. In un certo senso, con quel viaggio, cancellarono duemila anni di storia del popolo ebraico e crearono una nuova narrazione. Presero a esaltare eroi nuovi, campioni della potenza fisica e militare come Sansone e Bar Kochva (il capo dell’ultima rivolta ebraica contro l’impero romano, n.d.r). Tornarono a lavorare la terra, cosa che avevano disimparato a fare perché in Europa era loro proibito possederne. Si prepararono a combattere per sé e per i propri simboli, mentre per secoli avevano combattuto solo negli eserciti altrui. L’idea era di creare una nuova società ebraica dentro uno Stato i cui confini sarebbero stati determinati dall’ampiezza degli insediamenti e dalle esigenze della sicurezza. Le faccio un esempio.

La mia famiglia viveva in un kibbutz nella Valle del Giordano. Tra il 1947 e il 1948, quando gli inglesi se ne andarono, il kibbutz fu subito spostato a ridosso della Siria, per essere sicuri che saremmo stati noi, e non altri, a stabilire i confini dello Stato ebraico. E parlando di insediamenti, sarà bene notare che non furono un’idea della destra politica o religiosa ma dei laburisti. Perché quello era il sionismo di allora”.

E lei? Che cosa fece?

“Alla fine delle scuole superiori mi arruolai nei commando di marina. In omaggio appunto a quella nuova narrazione: dovevo essere in prima linea nella difesa dello Stato ebraico. Ma se non fossi diventato un soldato, e non avessi fatto la carriera militare, sarei diventato anch’io un colono, come molti miei amici finiti poi sul Golan, nel Sinai, in Cisgiordania, a Gaza”.

Ma di nuovo le chiedo: perché parla di sconfitta? I palestinesi sono allo stremo, la soluzione dei due Stati cancellata, la soluzione di uno Stato solo quasi inconcepibile…

“Mi lasci raccontare, perché a me sono occorsi vent’anni per capire. Dunque… All’inizio ci consideravamo dei liberatori: c’erano gli egiziani, c’erano i giordani, e noi avevamo liberato questi luoghi. Proprio non capivamo che, mentre ‘liberavamo’ i territori, occupavamo e colonizzavamo le persone. Poi, in una seconda fase, abbiamo cominciato a sentirci degli occupanti, ma degli occupanti illuminati. È vero, ci prendiamo le terre ma gli portiamo la cultura, la tecnologia, i servizi, il progresso. Era un’idea insensata, perché intanto gli toglievamo la libertà, ma proprio non lo capivamo”.

Possiamo dire che ragionavate come gli inglesi in India nell’Ottocento?

“È così. Ma con una mentalità che, dopo la seconda guerra mondiale, era diventata assurda. Ci dicevamo: questo non è colonialismo, questa non è l’Algeria, non è l’India. Ma invece proprio colonialismo era. E purtroppo per rendercene conto abbiamo dovuto aspettare che la protesta, e poi la violenza e il terrorismo dei palestinesi ci colpissero. Certo, in Cisgiordania originano tutti i miti, i simboli le tradizioni, i fondamenti dell’ebraismo. C’è grande differenza con altre situazioni. Ma non c’è differenza nei sentimenti del popolo, nel nostro caso i palestinesi, che in queste terre ha vissuto per secoli. Le racconto una storia sul mio grande amico palestinese, Sari Nusseibeh”.

L’ex rettore dell’università araba Al Quds?

“Proprio lui. Quando ci siamo conosciuti, lui mi ha detto: raccontami qualcosa della tua famiglia. E io gli ho dovuto dire che tutto quel che so arriva al massimo ai miei nonni, di cui so qualcosa grazie ai miei genitori. I nonni erano tutti rimasti in Europa e furono tutti sterminati durante l’Olocausto. Non ho la più pallida idea di chi fosse il padre di mio nonno, per esempio. Il nostro albero genealogico è stato tagliato di netto. Gli antenati di Sari, invece, possono essere rintracciati fino al Cinquecento, la sua famiglia per secoli ha custodito le chiavi del Santo Sepolcro. E secondo lei uno come me è nella posizione di dire a uno come Sari che Gerusalemme è roba mia, questa terra è mia?”.

Diceva che le occorsero quasi vent’anni per capirlo…

“Sì, e ricordo bene come avvenne. Ero già contrammiraglio e andai a Gaza. Dovevamo attraversare un campo profughi, era l’epoca della prima intifada, e fummo attaccati. Donne che urlavano, pietre, ragazzi coi bastoni. Guardavo i loro occhi e mi resi conto, finalmente, che non eravamo né liberatori né conquistatori illuminati. Capii, insieme con tanti altri, che la prima intifada non era partita come un’operazione terroristica ma come un’insurrezione popolare contro l’occupazione, l’umiliazione, la mancanza di prospettive. E arrivai alla conclusione che la narrazione sionista che dice ‘tutto questo è nostro perché ci fu dato cinquemila anni fa’ va cambiata perché, altrimenti, porterà alla distruzione dell’idea stessa di Israele come focolare ebraico democratico e sicuro. Idea che è poi l’unica cosa di cui mi importi davvero, la mia preoccupazione principale”.

In che modo si arriverebbe a tale distruzione?

“Quando milioni di persone sentono di dipendere dalla tua volontà e dal tuo arbitrio per tutte le esigenze quotidiane, quando si sentono umiliate non solo come nazione ma come singole persone, è sicuro che prima o poi reagiranno. Che succederà quando a Gaza si comincerà a soffrire la fame e la sete? Ci saranno ondate di violenza, non bisogna essere profeti per capirlo, e come in passato i morti tra i palestinesi saranno quattro-cinque volte più numerosi dei nostri. Nel frattempo, le filiali di Al Qaeda e Isis si infiltrano sempre più profondamente a Gaza e nel Sinai e ormai anche in Cisgiordania. Se non cambiamo politica, da qui a 5-10-20 anni, non so quando ma so che avverrà, avremo gli stessi fenomeni anche tra gli arabi di Israele, che si considerano israeliani ma hanno a cuore la loro gente. A quel punto, Israele potrà solo trasformarsi in uno Stato razzista come il Sudafrica di una volta o in qualcosa come la Siria attuale, con ebrei e musulmani impegnati ad ammazzarsi l’un l’altro”.

Qual è la soluzione?

“Capire che difendere Israele dall’attacco di eserciti nemici, come nel 1948 e nel 1967, è giusto. Ma ciò che facciamo a Gaza o in Cisgiordania, con l’espansione continua delle frontiere verso Est attraverso gli insediamenti, è ingiusto, perché mira a negare ai palestinesi ciò per cui noi stessi abbiamo combattuto, ovvero il diritto all’autodefinizione e all’autodeterminazione”.

Lei sa bene che molti, in Israele, addirittura rifiutano l’idea che i palestinesi siano un “popolo”.

“Non me ne potrebbe importare meno. I palestinesi si vedono, e tutto il mondo li vede, come un popolo e una nazione. E meritano uno Stato”.

Quindi la soluzione a due Stati, esclusa da Netanyahu e prima ancora invisa a Sharon, resta l’unica strada non solo per la pace ma anche per la sopravvivenza di Israele.

“La traccia per futuri accordi dovrà essere molto simile a quella che qualche anno fa tracciai appunto con il professor Nusseibeh. Israele e uno Stato di Palestina lungo le linee di confine tracciate nel 1967, con eventuali aggiustamenti realizzati sulla base di scambi di territorio alla pari con rispetto alla demografia, le esigenze di sicurezza e di continuità territoriale tra la Cisgiordania e Gaza. Il che significa che circa il 20% dei settler dovrà essere ri-trasferito nell’Israele vero e proprio. Oppure dovrà prendere la cittadinanza palestinese, cosa che però dipenderà dai palestinesi. Gerusalemme Ovest sarà sotto la sovranità di Israele, Gerusalemme Est sotto quella dei palestinesi. Il Muro del Pianto sarà sotto il controllo di Israele, Haram al-Sharif sotto quello dei palestinesi. I luoghi santi cristiani manterranno lo status quo”.

Che cosa pensa della decisione di Donald Trump di considerare Gerusalemme la capitale riunificata dello Stato di Israele?

“Un grosso errore. Cancellando la discussione su Gerusalemme, Trump ha cancellato l’ipotesi dei due Stati, e non è stata una mossa molto furba. Però Trump a un certo punto aveva detto: uno Stato, due Stati, per me è lo stesso, vedano loro. Dichiarazione poco politica, certo, ma aveva ragione, perché sta a noi decidere. E se vogliamo davvero trovare una soluzione, dobbiamo abituarci a pensare in modo diverso”.

La “questione palestinese” è tuttora alla radice di molte delle tensioni che agitano il Medio Oriente e lo precipitano in un ricorrente stato di guerra. Anche il latente conflitto tra Iran e Israele rientra in questa considerazione. Ma la domanda è: davvero l’Iran è una minaccia mortale per Israele? O Israele esagera perché, come dicono molti, ha sempre bisogno di un nemico?

“Israele non esagera. L’Iran è una minaccia molto grande perché non riconosce Israele come un’entità legittima. Non possiamo in alcun modo permettere che gli iraniani sviluppino un nucleare militare, sarebbe una minaccia esistenziale per lo Stato ebraico. Quindi la vera domanda è: come possiamo impedirlo? Non credo in una soluzione militare. Penso invece che dovremmo fare due cose. La prima è rispettare l’accordo raggiunto da Obama nel 2015, che non è un buon accordo ma se non altro ci dà 10-15 anni di tempo in più. La seconda è formare una coalizione con i Paesi del Medio Oriente che, come noi, vedono una minaccia nel nucleare iraniano, e chiedere per questa coalizione l’appoggio della comunità internazionale. Penso a Paesi come la Giordania, l’Egitto e altri, relativamente moderati, che sono spaventati dal nucleare militare degli ayatollah ma anche dall’ondata di radicalismo islamico e terrorismo che negli ultimi trent’anni l’Iran ha promosso per espandere la propria influenza politica”.

IL GIORNALE

 

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