L’eterno B che si prende la scena
Al secondo giro di consultazioni, la crisi di governo è andata a sbattere sul «fattore B», inteso come Silvio Berlusconi. Geloso della sempre più evidente intesa a due tra Salvini e Di Maio, il Cavaliere era salito al Quirinale, insieme con la delegazione unitaria del centrodestra, maldisposto ad affrontare la ribalta delle telecamere per la prima volta non come numero uno. L’intesa tra gli alleati della coalizione prevedeva, infatti, che a parlare sarebbe stato Salvini, con Berlusconi e Meloni al suo fianco. Ma il leader di Forza Italia non s’è accontentato del testo concordato fino alle virgole tra i tre, per tenere insieme, sulla crisi siriana, le posizioni filo-Putin della Lega con quelle necessariamente filo-atlantiche di un eventuale nuovo governo, e per riaffermare il «no» del centrodestra all’offerta di Di Maio di accordarsi con il solo Salvini. E con un pezzo di teatro tra l’avanspettacolo e la commedia dell’arte, Berlusconi, prima ha preteso di introdurre Salvini, per ricordare che si sarebbe limitato a leggere una dichiarazione scritta a più mani, poi ha accompagnato la lettura con una mimica degna di Totò, concludendo con una raccomandazione ai giornalisti, invitati a «distinguere tra chi è democratico e chi non lo è»: una stoccata ai 5 stelle che Di Maio, ricevuto subito dopo da Mattarella, ha definito «una battutaccia» e considerato una ragione sufficiente per ribadire che, o si fa il governo 5 stelle – Lega, o semplicemente il governo non si fa.
Così, per l’ennesima volta, la crisi è tornata al punto di partenza e al nodo che finora nessuno è riuscito a sciogliere. L’idea che s’era fatta strada, prima che il Cavaliere facesse saltare il banco, era che il centrodestra unito avrebbe proposto al Capo dello Stato di dare un pre-incarico a «una personalità della Lega» indicata da tutta la coalizione: non lo stesso Salvini, che avrebbe rischiato di bruciarsi, ma più probabilmente il capogruppo alla Camera Giorgetti.
Sempre che Mattarella alla fine delle consultazioni condividesse questo percorso, all’incaricato sarebbe toccato il compito di tentare di rimuovere il veto dei 5 stelle verso Forza Italia e il centrodestra, oppure di constatare che resta irremovibile. A quel punto, riempito con il tentativo Giorgetti (o chi per lui) il tempo che va di qui fino alle elezioni regionali in Friuli (29 aprile), nei piani dei due potenziali alleati Salvini e Di Maio, Berlusconi avrebbe dovuto prendere atto che per trovare una soluzione è indispensabile che lui faccia il «passo di lato» che i 5 stelle gli chiedono, e il Movimento avrebbe cercato di trovare il modo di inserire nel governo una qualche forma di rappresentanza camuffata (facce nuove? tecnici di area?) anche di Forza Italia.
Figurarsi se il Cavaliere poteva accettare una cosa del genere. Nel vertice a casa sua, durato ore e ore, ha finto di capire, ha obiettato, ha preteso che nulla venisse messo per iscritto, e poi giunto al Quirinale s’è ripreso il centro della scena, mettendo in imbarazzo Salvini, provocando in Meloni un evidente muso lungo e offrendo a Di Maio l’occasione di ripetere il suo aut-aut. E dire che la cornice costruita attorno a questo secondo giro di consultazioni era quella dell’emergenza rappresentata dall’escalation della crisi siriana, con venti di guerra che continuano a spirare, e della necessità che i partiti si dessero una mossa, rinunciando ai propri veti per consentire la partenza di un governo nel pieno dei poteri. Adesso la situazione è di nuovo incartata, o per usare il linguaggio del Quirinale «ingarbugliata». Ma la pazienza del Capo dello Stato è agli sgoccioli.
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