Governo, Giorgetti prevede: finirà con gli M5S e l’appoggio del Pd

Dieci giorni e il Colle avrà raggiunto il primo obiettivo: chiudere la finestra elettorale di giugno e impedire — a chi l’avesse in mente — di puntare alle urne entro l’estate. Il secondo obiettivo invece è tutto da costruire, perché la prospettiva di un governo tra centrodestra e Cinquestelle appare irrealizzabile: il nodo della premiership sta inesorabilmente soffocando il dialogo tra Salvini e Di Maio, che per motivi diversi non vogliono né possono cedere su Palazzo Chigi. L’incarico che Mattarella si appresta ad affidare a un rappresentante del centrodestra servirà a certificare i residui margini di accordo o il suo definitivo fallimento. Nonostante le polemiche di questi giorni con i grillini, Berlusconi ha fatto sapere a Salvini che resta «un governista» e che non si opporrebbe a un esecutivo con M5S, in una condizione di «pari dignità». Ma già la settimana scorsa il leghista Giorgetti aveva pronosticato il rischio di una fumata nera. E in una riunione di partito si era detto sfiduciato per «l’assenza di cultura politica» e per «la mancanza di capacità di mediazione»: «Sentitemi, Mattarella ci metterà alle strette. Prima darà mandato alla Casellati per una esplorazione, poi — visto che non se ne farà nulla — lo schema cambierà. E scommetto che finirà con un governo di M5S con l’appoggio esterno del Pd».

Se si aprisse un’interlocuzione

Sarà per scaramanzia o per capacità divinatorie, il punto è che una simile deriva potrebbe davvero profilarsi, sebbene il Gianni Letta della Lega abbia molti estimatori tra i dem tendenza Renzi. In ogni caso il Pd attende solo che il duo Salvini-Di Maio alzi bandiera bianca per entrare in gioco, «e se un governo partirà grazie a noi — dice l’ex segretario democratico — sarà perché l’avrò deciso io». Il suo «forno» però avrebbe un costo altissimo per il capo del Movimento. Nel caso in cui si aprisse un’interlocuzione, infatti, il Pd metterebbe sul tavolo le questioni programmatiche ma anche la necessità di trovare una «figura di compromesso» per Palazzo Chigi: «Servirebbe un Rodotà del Duemila», ha spiegato ieri un autorevole esponente dem.

Tra i due litiganti, in mezzo la Meloni

È evidente l’intenzione del Pd di aprire come una scatoletta di tonno il Movimento e mostrare le contraddizioni che esistono e iniziano a manifestarsi: «Tanto per esser chiari, rispetto lo sforzo per il governo con Di Maio premier. Ma io sto con Di Battista», ha scritto tre giorni fa sul suo blog il senatore grillino Lannutti. Si vedrà se queste condizioni verranno formalmente poste dal Pd a M5S, è certo che Renzi — dopo la sconfitta nelle urne — vorrebbe la cravatta di Di Maio come scalpo. A meno che la mossa non serva per farsi dir di no dal leader grillino, in attesa di verificare se il «forno» del centrodestra continuerà a restare chiuso, come vorrebbe Salvini. Il segretario leghista non intende spaccare la coalizione. Piuttosto in Forza Italia c’è il timore che dopo le Regionali il leader del Carroccio possa salire sul predellino e lanciare il partito unico. Perciò Berlusconi ha invitato a cena l’eretico Toti, così da tenere unito il blocco azzurro. Tra i due litiganti, in mezzo c’è sempre la Meloni, furiosa per l’atteggiamento del Cavaliere ma intenzionata a giocare la carta di mediazione della federazione. Ed è chiaro come le sorti della legislatura si incrocino con le sorti delle coalizioni e dei partiti. Non a caso da un paio di giorni Salvini ripete sibillinamente che «o si fa un governo o si torna al voto e allora faremo da soli». «Da soli» vuol dire senza Berlusconi?

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