I partiti e le promesse cambiare è facile (a parole)

È l’ora dei programmi dunque, almeno se si deve credere a quello che si annuncia come il più straordinario caso di trasformismo della storia politica italiana, il futuro accordo di governo Pd-5Stelle. È l’ora dei programmi o meglio del «contratto», come va dicendo da settimane l’onorevole Di Maio con singolare lessico mercantil-capitalistico che sembra preso in prestito al miglior Berlusconi di «Porta a Porta». Ma è un «contratto» che seppure si farà avrà di certo un contenuto assai diverso dalle promesse fatte dai grillini ai propri elettori, caratterizzate da un tasso di radicalità più o meno analogo a quello del programma della Lega, anch’esso peraltro — tutto lo farebbe credere — destinato a restare sulla carta.

Insomma, passato il 4 marzo, per una ragione o per l’altra i propositi elettorali dei vincitori appaiono inesorabilmente avviati al ripostiglio. C’è però da chiedersi se davvero gli elettori leghisti e pentastellati volessero e pensassero che fossero realizzabili misure come la flat tax al 15 per cento, un reddito di cittadinanza generalizzato a tutti i senza lavoro, l’abolizione di fatto della legge Fornero sulle pensioni, l’espulsione di oltre mezzo milione di immigrati clandestini presenti nella Penisola, e così via fantasticando. Indubbiamente una parte di loro lo voleva e lo pensava: ma non la maggioranza, credo. La maggioranza degli elettori dei due partiti vincitori voleva e vuole presumibilmente un’altra cosa.

Voleva e vuole cambiare. Ma non già nei modi di un radicalismo costi quel che costi. Voleva e vuole cambiare la condizione del Paese in generale, a cominciare dallo stile e dal personale di governo. E poi voleva e vuole infrastrutture e servizi pubblici (specie sanità, trasporti urbani e locali, scuole) migliori e più equamente distribuiti tra nord e sud, periferie più vivibili, una burocrazia statale più efficiente e meno oppressiva con i suoi mille regolamenti, codicilli e pratiche tortuose, una tutela dei lavoratori più larga e penetrante di quella che esiste oggi, una sicurezza pubblica maggiore e una giustizia più veloce. Vuole essere sottoposta a un carico fiscale più sopportabile (per quelli che le tasse le pagano per intero: in pratica solo i lavoratori dipendenti e un pugno di eroi), nonché più equamente distribuito tra i vari tipi di reddito (vedi la pioggia di esenzioni e facilitazioni di cui godono in troppi). E vuole infine una maggiore capacità da parte del potere politico e dello Stato di contrastare la prepotenza degli interessi forti (dalle banche ai fornitori di utilities, alle organizzazioni malavitose).

Non è un programma rivoluzionario, come si vede. E’ il programma di un ragionevole anche se deciso cambiamento. E un programma del genere, se fosse realizzato — perfino ridotto della metà — non solo soddisferebbe le attese dell’elettorato della Lega e dei 5 Stelle, ma avrebbe il consenso di almeno l’altro cinquanta per cento dei cittadini italiani che hanno votato in altro modo. Ciò nonostante, sappiamo tutti che le probabilità che anche la metà della metà delle richieste contenute nel programma che ho chiamato di un ragionevole anche se deciso cambiamento vengano tradotte in pratica sono più o meno prossime allo zero. Del resto né la Lega né il M5S ne hanno fatto oggetto dei propri programmi elettorali, ispirati come ho detto a tutt’altri criteri.

Questo è il punto che mi sembra cruciale. Tanto la Lega che i 5 Stelle hanno preferito legare i loro propositi di cambiamento alla flat tax al 15 per cento, all’abolizione della legge Fornero o ad altre simili proposte fantasiose e per giudizio unanime affatto irrealizzabili anziché insistere in modo specifico e realistico su qualcuno dei punti elencati sopra. Perché? Per quale motivo, in altre parole, in Italia il cambiamento pensa sempre di doversi presentare come il cambiamento dell’impossibile ? Perché le proposte politiche che vogliono, incidere sulla realtà in modo nuovo, contrapponendosi frontalmente a quanto si è fatto prima, tendono ad essere puntualmente o proposte di maggiori spese (senza indicare mai corrispettive economie: vedi salario di cittadinanza ) ovvero presuppongono pratiche impossibili e strumenti inesistenti (come fare, ad esempio, per individuare e radunare i famosi clandestini sparsi in tutta la Penisola per poi deportarli non si sa dove, come richiesto dalla Lega?) Ancora: per quale ragione le proposte di cambiamento che si fanno in Italia da parte di quelli che si presentano intenzionati a cambiare tutto non riguardano mai, ad esempio, modi diversi di spendere o magari di risparmiare, ovvero di organizzare e controllare ciò che già esiste? Perché non prevedono mai semplificazioni o abolizione di norme in vigore, mai l’attribuzione di nuovi poteri di controllo ai cittadini? Per quale motivo, insomma, da noi la radicalità politica prende più o meno sempre una veste astratta e demagogica?

La risposta non è difficile: perché i novatori radicali sanno che se le loro proposte di cambiamento non si librassero nei cieli delle fantasie più o meno irrealizzabili o delle spese più o meno avventurose, se fossero proposte pratiche e ragionevoli, dovrebbero vedersela con un fortissimo numero di oppositori. Cioè di tutti coloro che da quelle loro proposte in un modo o nell’altro ne avrebbero uno svantaggio, e che nelle urne farebbero quindi pesare il loro voto contrario: interessi economici danneggiati, dipendenti di uffici inutili da chiudere , corporazioni colpite nei loro privilegi, interi mansionari da rivedere, burocrazie inviperite obbligate a cambiare forme e comportamenti, ecc. ecc. E’ per questo che le riforme reclamate nelle campagne elettorali dai riformatori radicali italiani — che forse più che radicali sono soprattutto italiani consapevoli di come stanno le cose — sono le riforme che fanno molto rumore ma in realtà non colpiscono gli interessi di nessuno. Che raccolgono il consenso di chi pensa di trarne vantaggio, e al massimo urtano la sensibilità e i valori, ma niente di più, di tutti gli altri . Male che vada (e va quasi sempre male) colpiscono i conti pubblici: ma quelli, si sa, sono per l’appunto pubblici, e cioè di nessuno. E’ per questo che nel nostro Paese molte cose che non vanno — e in un certo senso proprio le più importanti, quelle che pesano più negativamente sulla vita quotidiana dei cittadini — risultano immutabili. Perché nessuno, per cambiarle o cancellarle, vuole provare a vincere le elezioni nel solo modo che consentirebbe di farlo: cioè correndo davvero il rischio di perderle.

CORRIERE.IT

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