Il Colle comincia a riflettere su un governo-ponte verso il voto

fabio martini

Il variopinto rifiorire di procedure da Prima Repubblica – dagli esploratori ai preincarichi – nei prossimi giorni potrebbe far lievitare anche il più vintage degli scenari: l’ipotesi di un governo balneare. Uno di quei governi messi lì per lasciar «decantare», per prendere un po’ di tempo, per traghettare il Palazzo da uno scenario all’altro. In questo caso per portare il Parlamento verso elezioni anticipate. Nell’ovattato riserbo del Quirinale in questi ore si continua a monitorare l’intensità dei veti contrapposti e i segnali restano poco incoraggianti.

 Ecco perché, assieme alla speranza di dare un governo stabile al Paese, si stanno cominciando ad esaminare anche gli scenari che potrebbero determinarsi in caso di fallimento del mandato esplorativo affidato al presidente della Camera e degli incarichi che dovessero seguire. E tra le ipotesi c’è anche quella che contempla la possibilità di elezioni in autunno.

In questi primi 55 giorni post-elettorali Sergio Mattarella si è trovato a fronteggiare scenari senza precedenti nella storia della Repubblica: in 72 anni mai era mancata una maggioranza in entrambe le Camere.

 

Mai era diventata così plausibile la possibilità di una legislatura sciolta nel giro di pochi mesi e senza aver potuto dare la fiducia ad un governo. Tanto è vero che nelle ultime 48 ore nel Transatlantico i peones più ingenui e i parlamentari più esperti si ritrovano a condividere lo stesso destino: chiedersi quanto siano plausibili le prime date che circolano per le elezioni. C’è il «partito» del 23 settembre, quello del 30 settembre e quello dell’11 novembre.

 

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Fantapolitica? Certamente non sono date che escono dal Quirinale, dove però stanno soppesando tutte le ipotesi su un eventuale tragitto per arrivare allo scioglimento anticipato. Diversi scenari, ma senza aver optato per uno in particolare. L’enigma irrisolto ruota attorno ad un bivio ricco di implicazioni politiche e costituzionali. Sarebbe opportuno approdare ad elezioni con un governo, quello Gentiloni, già da mesi in carica per l’ordinaria amministrazione e che vi resterebbe addirittura per tutta la legislatura senza avere una maggioranza? Oppure si punta ad un governo che sia espressione della legislatura in corso anche se non dovesse ottenere la fiducia? Più opportuno Gentiloni o un «governo di nessuno»?

 

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Apparentemente interrogativi da legulei, in realtà questioni che potrebbero porsi nel giro di qualche giorno. Nel cinquattaquattresimo giorno di post-elezioni, col Palazzo in attesa del risultato delle elezioni in Friuli Venezia Giulia, hanno proseguito a correre voci e boatos di segno opposto. Al Quirinale quella di ieri è stata registrata come una giornata senza novità, i contatti informali non hanno fatto registrare avanzamenti e comunque al Colle di solito si prendono con le molle le voci di giornata. E si preferiscono studiare precedenti e opportunità politiche. In questo caso – ecco il punto dolente – un precedente uguale a quello in corso non esiste: le legislature, anche le più corte, hanno espresso tutte governi gratificati dalla fiducia parlamentare.

 

Non è dato sapere se Sergio Mattarella e Paolo Gentiloni sinora abbiano affrontato la questione ma negli ultimi giorni il tema sta diventando attuale. In base ai precedenti, in caso di scioglimento anticipato, il Capo dello Stato ha davanti a sé due scenari possibili: far «gestire» le elezioni dal governo che attualmente è in carica per il disbrigo degli affari correnti, naturalmente dopo un avallo sostanziale da parte di tutte le forze politiche. Oppure, formare un governo, farlo giurare (da quel momento è in carica) e fargli gestire le elezioni. Sia nel caso di fiducia accordata dal Parlamento, ma anche in caso di sfiducia, ipotesi da non scartare visto il clima di veti incrociati.

 

I precedenti raccontano che in due casi si è andati allo scioglimento anticipato delle Camere, sotto la guida di governi passati in Parlamento ma senza ottenerne la fiducia. Il caso più clamoroso risale al 1987. Amintore Fanfani, uno dei «cavalli di razza» democristiani, alla guida di un monocolore Dc, fu bocciato dal suo stesso partito ma restò in carica per 102 giorni, dei quali 56 pre-elettorali. Nel 1972 lo stesso destino era capitato a Giulio Andreotti, che rimase in carica dal 18 febbraio al 26 giugno. Precedenti tutti democristiani.

 

Ai quali aggiungere quello del primo governo balneare della storia repubblicana: lo formò Giovanni Leone nell’estate del 1963. Cinquantacinque anni fa. Seguirono poche altre repliche e sembrava che quegli esecutivi stagionali non dovessero più tornare. Nessuno avrebbe potuto immaginare che il primo Parlamento dominato da due forze anti-establishment potesse essere traghettato da un esecutivo balneare.

LA STAMPA

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