Una festa del lavoro senza la sinistra politica
Sarà il primo Primo Maggio senza una sinistra politica. Per più di un secolo il mondo del lavoro ha avuto un suo partito, un riferimento parlamentare, ma dopo il 4 marzo non ce l’ha. Il Pd, la forza politica più prossima a quel mondo almeno per estrazione storica, non lo rappresenta più e neanche vuole farlo, essendosi piuttosto impegnata negli anni di governo a trasformarsi in un partito pigliatutto, dei ceti medi, della nazione, al punto che la sua componente di sinistra se ne è andata. Così ora il Pd non ha più una sinistra, e la sinistra non ha più un partito, vista la prova elettorale disastrosa di chi ha cercato fortuna fuori dalla casa dei padri, sia nella versione dalemiana più vicina alla Cgil, sia nella versione ulivista nostalgica di Prodi. Al punto che oggi – per riconoscimento unanime – il programma del Pd troverebbe più convergenze con quello dell’altro partito moderato, Forza Italia, che con qualsiasi altra forza in Parlamento.
Non si capisce la drammaticità della scelta che è chiamata a fare il Pd tra pochi giorni se non si parte da questo dato: la voragine culturale e ideale che si è aperta nel campo progressista, e che ha preso il posto di un collaudato e antico sistema di valori, di certezze, di opzioni morali. Nell’ultima legislatura la sinistra democratica ha in verità prodotto il suo massimo sforzo per ridarsi un orizzonte politico. Lo ha spiegato molto male, e in modo spesso arrogante, ma ci ha provato. E il nuovo orizzonte era una politica che promuovesse l’uguaglianza delle opportunità, l’empowerment dei ceti deboli attraverso la crescita. Al posto di protezione sociale e redistribuzione, cuore tradizionale della sinistra, dinamismo economico e sviluppo. Il messaggio era: se saremo bravi a governare, competenti, riformisti, amici dell’impresa, rispettati in Europa, la ripresa arriverà. E quando sale la marea, come diceva John Kennedy, tutte le barche salgono.
Questa strategia, inceppatasi nella sinistra europea dai tempi di Blair, non è riuscita (per molte ragioni, che forse prima o poi converrebbe al Pd di analizzare). Sono anzi rimaste dolorosamente aperte le tre grandi disuguaglianze di cui parla lo storico Emanuele Felice: quella di istruzione, tra noi e il resto d’Europa; quella territoriale, tra Nord e Mezzogiorno; quella generazionale, a danno dei giovani. Nelle urne è arrivato forte e chiaro l’effetto di questo insuccesso. Analizzando i voti dei vari strati sociali, Carlo Trigilia ha segnalato sul Mulino che il Pd “ha perso la connotazione tipica dei partiti socialdemocratici europei, basta sulla forte presenza della classe operaia, dei salariati dei servizi e dei nuovi ceti medi dipendenti, specie di quelli legati al settore pubblico, senza avvicinarsi al profilo di un partito con un’ampia base moderata”. In tutta Europa la sinistra è in affanno, ma, con l’eccezione del Ps francese, la crisi di rappresentanza del Pd è la più grave e la più rapida: tra il 2013 e i 2018 il voto dei salariati dell’industria e dei servizi è sceso dal 26% al 14%, mentre è al 40% per i Cinquestelle e al 19% per la Lega. E, quel che è peggio, neanche un tale risultato sembra dare una scossa, accendere una scintilla. La ormai proverbiale divisione non si traduce mai in discussione e decisione, e non emerge alcun nuovo gruppo dirigente: tant’è vero che stasera torna sulla scena Matteo Renzi, chiaramente ancora il deus ex machina del suo partito.
La sensazione è dunque che la tattica, la manovra, abbia completamente preso il sopravvento sulla necessità di una strategia e di un rinnovamento della cultura politica. Con quale proposta, con quale idea il Pd potrebbe dunque andare «a schiena dritta», come dicono i suoi dirigenti, alla trattativa con M5S per la formazione di un governo? Questo è il punto. Ci interroghiamo tutti se i democratici debbano oppure no accettare questa alleanza. Ma non dobbiamo smettere di chiederci se gli italiani la accetteranno, visto che nelle ultime due occasioni in cui hanno votato, al referendum e alle Politiche, hanno detto molte cose contraddittorie ma hanno chiaramente punito il Pd. E infatti la percentuale di elettori democratici che nei sondaggi si dicono favorevoli al governo con i Cinquestelle (39%) è tre volte più elevata di quella, molto scarsa, degli elettori in generale (13%). Per tanti italiani, soprattutto nel Nord che vota centrodestra, sarebbe paradossale vedere una trattativa condotta da chi ha espresso i governi uscenti, così duramente bocciati nelle urne.
Il gruppo dirigente del Pd è perciò chiamato a una scelta davvero cruciale. Da un lato, dicendo sì renderebbe un servizio alla Repubblica (e non sarebbe il primo), che ha bisogno come l’aria di un governo, di un Parlamento che funzioni, di un’attività legislativa; e garantirebbe alla nuova compagine il peso di competenza ed esperienza del suo personale politico. Dall’altro, però, dovrebbe farlo nel segno della continuità, di un’autodifesa del suo passato e della sua leadership, condizioni che potrebbero addirittura aggravare la crisi di fiducia con l’elettorato; oppure, in alternativa, accettando per puro spirito di conservazione una subalternità politica e culturale rispetto al partner maggiore, ciò che potrebbe segnarne la fine.
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