L’eterno tabù del voto sotto l’ombrellone, la regola non scritta più forte della Carta
La chiamavano la Regola del Generale Agosto e per settant’anni i partiti l’hanno rispettata come se fosse una disposizione costituzionale, anzi di più. Il voto estivo è stato uno dei grandi tabù dell’Italia repubblicana, che mai si è spinta a convocare gli elettori oltre il limite del Solstizio d’estate, il 21 giugno, data già considerata avanzatissima (si andò alle urne così tardi solo due volte, nel ’76 e ’83).
Per evitare il voto «durante le vacanze» nel nostro Paese si è fatto di tutto, compresa la costruzione di due o tre esecutivi dichiaratamente «balneari», che già nella definizione evocavano un presidente del Consiglio addormentato in spiaggia (anche se quasi tutti andavano in montagna) in attesa della fine delle ferie. Il luogo comune ce li ha raccontati come soluzioni furbesche di parlamentari indisponibili al lavoro estivo e decisi a non rovinarsi le ferie che ritenevano largamente meritate.
In realtà questi governi a breve termine furono la scappatoia dei momenti neri della politica, la camera sterile nella quale si sedarono i momenti più febbrili del Paese, nell’attesa che l’autunno riportasse lucidità e soluzioni.
Nel ’63, quando Giovanni Leone inaugura la formula, la prima coalizione di centrosinistra della nostra storia, guidata da Amintore Fanfani – un gran calderone sostenuto dall’esterno dal Psi di Pietro Nenni – si è appena inabissata nel durissimo scontro suscitato dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica, dalla riforma della scuola media unica e dal tentativo fallito di istituire le Regioni: trovare la quadra in quel putiferio di interessi contrapposti è impossibile. Nel ’68, quando l’esperienza si ripete sempre con Leone, si è alla vigilia dell’autunno caldo nelle fabbriche e nelle università italiane, e non c’è bisogno di aggiungere altro per capire quale sia il clima.
Balneare va considerato anche il governo di Giovanni Goria, che nel 1987 fu la soluzione provvisoria a una tornata elettorale indecifrabile, dove i due grandi competitori – Dc e Psi – avevano entrambi vinto e nessuno dei due intendeva fare passi indietro. Durò un po’ più degli altri, otto mesi contro i cinque dei precedenti, ma solo per una serie di fortuite circostanze.
La Regola del Generale Agosto, insomma, più che a garantire il riposo della Casta secondo la narrazione in voga, è servita a sopire tensioni ed evitare tornate elettorali ad alto rischio per tutti, in un’epoca in cui si preferiva guidare l’elettorato anziché eccitarlo (e magari si aveva anche rispetto per le ferie estive dei cittadini). Infatti quella norma non scritta è sparita con la Prima Repubblica, insieme alle molte altre soluzioni creative inventate negli anni della Guerra Fredda per garantire equilibri in un Paese che equilibrato non era: governi istituzionali, tecnici, di bandiera, di necessità, di salute pubblica, di transizione, persino carsici. Nel ventennio del maggioritario, i governi «di fantasia» non sono serviti più: un po’ per le mutate condizioni generali, molto perché il trasformismo parlamentare ha consentito di trovare soluzioni diverse al venir meno delle maggioranze e si è sempre trovato un gruppo di «responsabili» disponibile a sostenere un esecutivo arrivato all’ultima spiaggia.
Ora che il tema torna di attualità, adesso che una di quelle formule bizantine magari tornerebbe comoda per costruire una campagna elettorale più razionale, sono i partiti vincitori a non volerne sapere, almeno in apparenza. E l’anomalia è vistosa, non soltanto rispetto alla nostra storia. Il voto estivo, infatti, non è un tabù soltanto nostro ma anche del resto d’Europa: persino Spagna e Grecia, che pure hanno avuto passaggi turbolenti in questi anni di rivoluzioni populiste, sono riuscite sempre ad evitarlo. Un’altra eccezione italiana da aggiungere alla serie, ormai lunghissima, delle cose senza precedenti che la politica produce in questi strani tempi.
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