Calenda: «Prima le riforme, poi il voto. Matteo e Letta in segreteria»
Donald Trump ha dato all’Europa un altro mese per offrire concessioni commerciali, o alzerà dazi su acciaio e alluminio. Che ne pensa?
Quando si negozia bisogna mettersi nei panni dell’altro — dice Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo del governo uscente —. Oggi gli Stati Uniti hanno un deficit di 120 miliardi con la Ue; 41 nel settore auto, dove l’Europa pratica dazi quattro volte più alti degli Usa».
Hanno ragione gli americani?
«No. C’è uno squilibrio, ma non si può correggere con azioni unilaterali che mandano in pezzi il sistema del commercio. Bisogna trattare. Durante la presidenza italiana dell’Ue proponemmo un accordo su tariffe e convergenza regolamentare in particolare su 8 settori industriali dove c’era già l’intesa, lasciando fuori i capitoli controversi del Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti. Quella è la strada».
La scelta americana di attaccare sull’acciaio è simbolica?
«Lo è, perché ci ricorda quanto si è sbagliato fino a ieri. In base ad un’interpretazione dogmatica delle catene globali del valore, abbiamo deciso che l’importante era importare l’acciaio al più basso costo possibile. Non importa se prodotto in dumping in Asia, distruggendo l’industria del settore in Occidente. Oggi ci sono investitori interessati all’Ilva e a Piombino perché, anche grazie alla nostra azione, l’Europa si è svegliata e ha rafforzato le difese».
Trump fa bene a prendersela con i cinesi?
«Ha tutte le ragioni per rispondere al dumping cinese. Il problema è che lo fa coinvolgendo l’Europa, che non agisce in modo scorretto. Ma non dobbiamo farla diventare una battaglia di principio. Per questo l’Italia resta prudente e pragmatica. Ricordo che in America esportiamo per 40 miliardi di euro — in grande crescita — con un saldo positivo di 25».
Si possono gestire queste questioni con un governo dimissionario?
«Sul commercio restiamo pienamente legittimati e siamo molto ascoltati a Bruxelles. Ma certo in un frangente storico così complesso per tutto l’Occidente abbiamo bisogno di un governo forte con ampio sostegno parlamentare, che sappia anche rapportarsi in una dimensione internazionale».
Ad alcuni queste suoneranno le parole di un esponente delle élite, che pensa di saper fare solo lui.
«Al contrario. La leadership basata sulla competenza o la presunzione di competenza è stata sconfitta in tutto l’Occidente. Oggi bisogna recuperare la centralità della rappresentanza. Vuol dire in primo luogo dare cittadinanza alle paure diffuse».
Se questo è il messaggio del Pd, anche alle Regionali gli elettori non l’hanno colto.
«Perché non l’abbiamo dato. In linea con la retorica dei progressisti degli ultimi decenni abbiamo cercato più di motivare le persone parlando di futuro, piuttosto che partire dalle angosce del presente».
Chi l’ha sbagliato, Renzi?
«Errore collegiale. Anche se i governi hanno operato bene, come dimostrano gli ultimi dati su occupazione e Pil. Oggi una politica che dimostra di capire le paure dei cittadini vince più di una politica capace di governare bene. È il principio della rappresentanza e in fondo della democrazia».
Dica la verità, lei nel Pd è appena entrato ma non ci si trova.
«Il problema è più ampio e investe tutta la retorica dei progressisti dall’89 in poi. Abbiamo semplificato processi storici complessi. Abbiamo ritenuto che parole d’ordine come merito, eccellenza, multiculturalismo, innovazione, globalizzazione, opportunità corrispondessero a un naturale evolversi della storia e delle nostre società. Così non è stato. Abbiamo curato poco le transizioni confidando sulla meccanica del mercato e nell’innovazione tecnologica e sostituendo la rappresentanza con la teoria economica. In fondo quando Trump dice “America First”, dice una cosa banale: sono eletto per tutelare i cittadini americani. L’importante è che questo non implichi lo smantellamento della solidarietà transatlantica».
È Matteo Salvini della Lega a dire «prima gli italiani»…
«Noi tutti governiamo per tutelare anzitutto gli italiani. Poi però devi saperlo fare. Sparare slogan, farsi i selfie davanti alle fabbriche e poi dimenticarsene non è tutelare gli italiani: è prenderli in giro».
Salvini socchiude a un governo ampio per rifare la legge elettorale e rivotare. Che ne pensa?
«È una cosa positiva. In Italia serve uno Stato forte, non pervasivo, che sappia proteggere, investire e soprattutto implementare le decisioni. Serve nel nostro ordinamento una clausola di supremazia che tuteli l’interesse nazionale dai veti locali. Proviamo a concentrarci in questa legislatura su un governo istituzionale e un parlamento che chiudano la seconda repubblica e aprano la terza in modo ordinato con tre punti: legge elettorale a doppio turno, clausola di supremazia e allora sì un po’ più di federalismo. Poi si vota».
Ci vorranno 5 anni…
«Un anno e mezzo. Di Maio e Salvini dovrebbero capire che è anche nel loro interesse un sistema che funziona, perché alla prova del governo si soccombe facilmente se non si hanno strumenti adeguati».
Dunque l’intesa del Pd con i soli 5 Stelle non ha senso?
«È sbagliata, perché le loro proposte sono fondate su una fuga dalla realtà e dalla responsabilità. Il rischio è di finire come su Ilva dove Emiliano insegue i 5 Stelle per chiuderla senza dare valide alternative e lasciando il conto ai cittadini. Fare la ruota di scorta ad un governo Di Maio mi sembra fuori dalla realtà. Renzi ha avuto ragione».
Anche nei modi, con un’intervista in tv?
«Sì. È meglio che Renzi parli direttamente, piuttosto che per interposta persona. Anzi, per il Pd credo proprio ci voglia una segreteria costituente della quale Renzi faccia parte insieme a Paolo Gentiloni, a Enrico Letta e agli altri ex segretari del Pd. Che ci si confronti in una sede ristretta e poi si esca con una posizione unica».
Anche con lei?
«No, io nel Pd sono appena entrato. Questo non significa che non debba dire la mia».
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