Tanti soci senza un vero piano e con l’incognita della rete

marco zatterin

Adesso Tim è una «public company», una società a capitale diffuso, condizione che in Italia ha in genere vita difficile, soprattutto quando si è rilevanti e oggetto di morbose attenzioni politiche.

 A guidarla sarà un consiglio scelto da azionisti eterogenei, in testa un aggressivo fondo americano e la cassaforte nazionale degli investimenti pubblici, che si è estromessa dal board come se un Frate Indovino 4.0 avesse consigliato «prudenza». I nuovi condottieri promettono di essere ispirati dal buon governo d’impresa eppure, al di là degli inevitabili slogan, la loro missione strategica invoca parecchi lumi. Meglio lasciar raffreddare gli umori, poi dovranno chiarire chi guida, con quali idee alternative e se giocheranno la madre di tutte le partite scritta nel copione romano dell’offensiva, cioè la riconquista dell’egemonia statale sulla rete Tlc.

 

Sin qui un solo obiettivo è raggiunto, quello che esigevano i partiti e che «lo squalo gentiluomo» a stelle e strisce Singer, come d’abitudine appoggiato ai palazzi degli eletti, ha permesso fosse realizzato: disinnescare Vincent Bolloré e, appena possibile, rispedire in Patria le armate del capitalismo francese. Coi fili e i cavi italiani non si scherza.

 

Il ritorno della telenovela delle Tlc italiche alimenta così le più roboanti delle ipotesi, copione abituale per l’ex Telecom Italia, cavaliere dimezzato che in vent’anni è stato ridotto da grande protagonista delle telecomunicazioni globali ad attore regionale in cerca di identità. «Non siamo invasori, siamo la conseguenza del passato e stiamo dando a Telecom ciò di cui ha bisogno», diceva neanche un anno fa il parigino Arnaud de Puyfontaine, presidente esecutivo dell’era Bolloré. I manovratori entranti potrebbero usare la stessa frase, tragicamente valida per tutte le recenti stagioni di Tim. Ne sanno qualcosa i sindacati che, appena saputo del ribaltone, sono saliti sul carro del vincitore dal quale hanno cominciato a dire, «mi raccomando, niente tagli».

 

Si, certo, bisognerebbe farla volare la Tim, perché il sistema ne ha bisogno e perché è titolare dell’infrastruttura su cui corrono tutti i concorrenti. Peccato che la rete sia solo una delle risorse che rendono redditizie un colosso delle Tlc, mercato su cui le autovetture sono importanti quanto le autostrade. Senza contenuti, non si va da nessuna parte. Per cui occorre un consiglio forte dalle idee chiare. Con Francia o Italia purché il management – nel caso dotato di curricula esemplari – sia in grado di fare il proprio lavoro. Ma quale?

 

La Var dei mercati racconterebbe di Elliott, gigante visibile, che entra in scena dopo aver fiutato la debolezza del clan Bolloré, fiaccato dalle disavventure Mediaset, puntato da governo e opposizione con eguale vigore. Ha visto il sangue e si è tuffato nell’affare a inizio marzo, pagando i titoli intorno ai 70 cent e dicendo apertamente che l’obiettivo era contrastare l’azione di Bolloré con un proprio piano industriale. Un mese più tardi, come un fulmine a ciel sereno, è scesa in campo la Cdp, imbeccata da un vertice a quattro chiesto da Gentiloni e Calenda, da cui emergeva l’ambizione di sfilare la rete alla gestione francese, per quotarla e farne una «public company» teleguidabile alla bisogna.

 

Alla distanza, tutto fa pensare che resti questo – il controllo della rete coi soldi degli altri – il pensiero guida di lungo termine che solleticherà la nuova gestione. Salvo che Elliott ha scritto di ritenere che sia meglio lasciare il network in pancia alla società telefonica; se gli americani non cambiano idea sarà una strada in salita. A meno che Singer non venda la quota, opzione complessa e non prevedibile, come il nome del possibile acquirente. Curioso che fosse pubblico. Perché, inoltre, si sente dire da tempo che lo scorporo è anche un modo per allontanare il calice della banda larga dall’Enel, mai troppo entusiasta dell’avventura digitale pubblica avviata creando Open Fiber, proprio con la Cdp.

 

Nell’indeterminatezza, le voci corrono a velocità da molti giga. Ci sono dubbi sulla durata di Genish e del suo piano, nonostante le rassicurazioni. Spento il motore francese, ci si domanda, perché si dovrebbe tenere il loro programma? Il top manager israeliano potrebbe essere sostituto all’approvazione dei dati del secondo trimestre, a fine luglio, da uno come Altavilla, Gubitosi o Sabelli. Nulla di deciso, sia chiaro, ma a sospettare si fa più peccato che male. Nel frattempo ci si attende che il navigato Fulvio Conti agevoli i lavori, cosa che comunque fa riflettere sui suoi trascorsi in Enel di appena tre anni fa che ora lo rendono potenzialmente tutore degli interessi della società elettrica nuova gestione. Tutto torna,

 

Poi c’è la reazione di Bolloré. Lascia a raddoppia? C’è chi lo vede ricercare una rivincita sul fronte Mediobanca. Chi lo immagina impegnato a riprovarci con Mediaset, partita insidiosa. Anche perché nei corridoi romani qualcuno ha la visione di una Tim che finisce nell’universo berlusconiano per tentare una rivoluzione tv-telefonica con base made in Italy e, paradosso finale, reincrociarla con Vivendi.

 

È tanta roba, e sarebbe bello se ci fosse chiarezza, per gli utenti, gli azionisti e dipendenti, ma anche per il bene dell’Italia. Aiuterebbe anche un governo dalle idee precise e solide, ma è meglio limitare la portata dei desideri: il troppo è spesso nemico del bene. In Telecom Italia lo è stato tante volte.

LA STAMPA

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