Per il governo necessario un accordo politico
È singolare che in una Repubblica vissuta per settant’anni di accordi di governo (sono stati necessari anche dopo l’introduzione della formula elettorale maggioritaria) le forze politiche non riescano ora a trovare un’intesa. Il ritorno
a una formula elettorale prevalentemente proporzionale non agevola l’accordo, né lo favorisce una campagna elettorale troppo accesa, che ha accentuato le divisioni (Arturo Parisi ha definito l’ultimo voto un cataclisma per la quantità e un’apocalisse per la sua qualità). Eppure di una intesa non si può fare a meno, perché il Paese comincia a manifestare segni di impazienza, nel timore di trovarsi in un vicolo cieco, nel quale si riattizzino le divisioni; perché il Parlamento è fermo in attesa della formazione di un esecutivo; perché risentono di questo stallo persino le Regioni, che furono istituite proprio per non far dipendere tutto dal centro, e, quindi, in ultima istanza, dal governo.
Chiunque abbia esperienza di organi collegiali, dall’assemblea di condominio al consiglio di facoltà, al consiglio comunale, sa che gran parte delle decisioni passa attraverso l’accordo. L’accordo nel Parlamento e del Parlamento è necessario perché la nomina presidenziale del governo diventi efficace. Se nel Parlamento non si cerca un’intesa per giungere a una decisione, non c’è la «fiducia», così come senza una approvazione del Parlamento non si può legiferare.
Lo stesso vale per l’attività di governo, che richiede accordi, intese, compromessi, spesso rinvii o posticipazioni: altrimenti non si riesce a gestire insieme. In Italia abbiamo avuto molte esperienze di governi provvisori, a carattere temporaneo, che sono stati chiamati variamente, di decantazione, di traghettamento, delle astensioni, di minoranza, di garanzia, istituzionali, del presidente, di scopo, di tregua, della «non sfiducia», balneari, «amici», amministrativi, per sottolineare ora la breve durata, ora il compito limitato, ora il fatto che non avessero un appoggio pieno del Parlamento. Uscito di scena De Gasperi, nel 1953, Einaudi chiamò Pella alla guida di un monocolore (come si diceva allora), che durò 5 mesi. A causa delle difficoltà della Democrazia cristiana dopo le elezioni del 1963, Segni incaricò Leone, che presiedette un altro monocolore Dc per 6 mesi. Lo stesso fece Saragat nel 1968, con un secondo governo Leone, di analoga durata. Più lunga vita (un anno e 7 mesi) ebbe il governo Andreotti III del 1978, anch’esso un monocolore, nominato da Leone. Invece, fu un quadripartito il governo Fanfani V, al quale fece ricorso Pertini nel 1982.
Tutti questi governi ebbero l’approvazione del Parlamento, anche quello chiamato della «non sfiducia» (Andreotti III), per il quale le astensioni superarono i voti a favore. Ma questo non diminuì l’importanza delle innovazioni di quel governo, tant’è vero che esso fu il primo al quale prese parte una donna. E anche le astensioni vennero concordate, furono il frutto di intese tra le forze politiche. Pur se temporanei, anche a questi governi forze politiche opposte hanno sentito il dovere di collaborare. Così hanno accompagnato lo sviluppo della gracile democrazia italiana e assecondato l’inserimento del Paese nel concerto europeo.
La Costituzione vuole che, dopo le elezioni (o dopo una crisi di governo), il presidente della Repubblica nomini il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri. Che poi tutti i membri del governo così nominato giurino nelle mani del presidente stesso. Infine, che il governo, dopo aver presentato in Parlamento il suo programma, abbia l’approvazione delle Camere (la «fiducia»), mediante mozione motivata e votata per appello nominale. Il presidente, che è responsabile della procedura, deve quindi assicurarsi che il governo che intende nominare, e le relative linee programmatiche (la «politica generale del governo», secondo l’art. 95 della Costituzione), siano in grado di ottenere l’approvazione parlamentare. La campagna elettorale è finita, e da due mesi si è avviata la ricerca di un governo. Ora le forze politiche non si misurano più per la loro capacità di acquisire consensi nel Paese, bensì per la loro capacità di dialogare e di mettersi d’accordo nel Parlamento.
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