Rohani: “Decisione illegittima. Pronti ad arricchire l’uranio”

giordano stabile
inviato a beirut

Hassan Rohani risponde nel giro di pochi minuti, in diretta tv, all’annuncio di Donald Trump e accusa l’America di aver preso una decisione «illegale, illegittima, che mina gli accordi internazionali», di essere un Paese che «mette firme vuote su pezzi di carta» e non rispetta mai la parola data. Il presidente iraniano annuncia che «resterà nell’intesa» ma avverte che «c’è poco tempo per iniziare i negoziati per mantenerla in piedi», e di aver ordinato all’Agenzia atomica «di essere pronta a riprendere l’arricchimento dell’uranio come mai prima, già nelle prossime settimane», se non ci dovesse riuscire.

 La replica è un misto di orgoglio nazionale e ricerca di dialogo, per lo meno con l’Europa. L’Iran, assicura «sarà più forte e unito che mai», non è isolato e ha dimostrato di saper mantenere gli impegni mentre gli Stati Uniti non sono affidabili e «l’unico alleato che li segue è Israele».

 

Rohani, alla fine, ribadisce che il suo governo è pronto a fare «tutto quello che vuole il popolo iraniano» contro Stati Uniti e Stato ebraico. «L’opzione militare», anche se mai citata, è sul tavolo della Guida Suprema Ali Khamenei, in un ventaglio di reazioni che possono andare dalla più moderata, restare nell’intesa con europei, russi e cinesi, alla più estrema, uscire dal Trattato di non proliferazione come fece la Corea del Nord.

Anche perché, se Israele teme un «accerchiamento» da parte degli Stati arabi alleati della Repubblica islamica, gli ayatollah si sentono a loro volta sotto assedio, con decine di basi militari Usa nel Golfo, in Iraq, Afghanistan, viste come una tenaglia.

 

Ed è proprio Rohani, all’interno del regime, il più indebolito dalla virata dell’America: dovrà dimostrare in fretta di saper salvare quel che resta dell’accordo e proteggere l’economia. Khamenei, che svolge un ruolo di mediazione fra l’ala dialogante e quella oltranzista, rischia di essere spinto verso le posizioni dei Pasdaran. Su questa linea è il presidente del Parlamento Ali Larijani: «L’unico linguaggio che conoscono gli americani – ha commentato – è la forza». Gli ha fatto eco il comandante dei Pasdaran, generale Hossein Salami, che ha avvertito che il Paese «è pronto agli scenari più pericolosi».

 

L’ala estremista spinge per una rappresaglia su Israele, per «vendicare» i raid in Siria del 9 e 29 aprile. È una minaccia che Israele prende sul serio. Ieri il premier Benjamin Netanyahu, dopo aver lodato «la coraggiosa decisione» di Trump, è tornato ad accusare l’Iran di piazzare «armi molto pericolose in Siria», mentre l’intelligence militare ha notato «movimenti sospetti» di forze iraniane e ha portato le forze di difesa «all’allerta massima» sul Golan, dove ha fatto aprire i rifugi anti-bomba. Soffiano qui i venti di guerra più forti: l’esercito ha cominciato a richiamare i riservisti e un raid, con tutta probabilità israeliano, ha colpito una base militare siriana vicino a Damasco, nella cittadina di Kisweh. Due missili israeliani – dice la tv di Stato siriana – sono stati abbattuti. L’intelligence è convinta che gli obiettivi di una possibile rappresaglia siano le basi dell’aviazione in Israele, con una ritorsione missilistica affidata a milizie sciite alleate come Hezbollah, e vuole anticipare le mosse iraniane.

 

Il secondo fronte che rischia di aprirsi è quello contro soldati Usa in Iraq e Siria, dove Washington schiera duemila uomini. In Siria ci sono anche dai 10 ai 15 mila combattenti iracheni sciiti della Brigata Harakat Hezbollah al-Nujaba. Il loro leader, l’imam Akram Kaabi, ha già minacciato le truppe americane, «un bersaglio legittimo». L’ultimo fronte è quello economico. La sospensione delle sanzioni alla fine del 2015 ha portato a un boom, con una crescita del 13 per cento nell’anno fiscale 2016-2017. Ma già nel 2017-2018 ci sarà un forte rallentamento, secondo la Banca mondiale. Con il ripristino delle sanzioni si rischia la recessione. Teheran deve fronteggiare un possibile taglio all’export di petrolio di un milione di barili: ai prezzi attuali una perdita di 70 milioni di dollari al giorno. Solo la Cina, che ha raddoppiato nell’ultimo decennio la sua quota sulle esportazioni di greggio iraniano, potrebbe ridurre l’impatto negativo.

LA STAMPA

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