Se non un programma, sarà un contratto. Meglio. Meno parole al vento, meno libri dei sogni da campagna elettorale. Allora, se vogliamo capire con quale menù Lega e 5 Stelle potranno sedersi alla stessa tavola, lasciamo da parte tutto ciò che abbiamo sentito fino al 4 marzo. E che infatti non sentiamo più da Salvini e Di Maio oramai da settimane, o sentiamo con toni e accenti molto diversi, sfumati, istituzionali. Allora possiamo pensare che la legge Fornero non sarà ruspata ma emendata, dentro lo steccato della spesa pubblica, si spera “mutilata” di qualche spreco. Possiamo ipotizzare che il Jobs Act non venga buttato nella spazzatura, ma si trovino meccanismi diversi e più efficaci per smuovere il mondo del lavoro e delle imprese. Missione non impossibile. Quanto alla fiscalità, beh è inutile che rimettiamo in bocca a Salvini la parola flat tax: lui la evita, sapendo che qualcosa dovrà fare per ridurre il carico fiscale, ma non quanto e nei tempi promessi soprattutto al popolo del Nord. Come il reddito di cittadinanza per Di Maio, già declassato a sostegno a termine per chi cerca un lavoro.

Insomma, se accordo ci sarà, sarà come tutti gli accordi, quelli che i grillini definivano inciuci: una mediazione. Ovvio. Anzi, le mediazioni dovranno essere almeno quattro. La prima, tra le due Italie che queste forze politiche rappresentano: il Sud vagone di classe economica e il Nord locomotiva ad alta velocità. La seconda, tra il governo e il resto dell’Italia che conta: la Banca centrale e Confindustria, ad esempio, che anche ieri hanno suonato l’allarme della responsabilità. Terza, l’accordo tra noi e il resto del mondo: l’Europa matrigna, scenari internazionali in ebollizione, le alleanze, i mercati. Infine, l’accordo forse più delicato: tra questa maggioranza inedita, e un Paese con il fiato corto, cittadini-elettori a cui è stato promesso tanto e presto; che hanno fatto una scommessa. E che non avranno la possibilità di ottenere tutto, ma hanno almeno il diritto di avere qualcosa.

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