La politica di Trump e le facili verità sull’Iran
Quanto più complicate sono le situazioni tanto più diventa difficile stabilire quale decisione sia giusta e quale sbagliata. Nell’area più instabile del pianeta, il Medio Oriente, scelte che al momento sembrano buone possono rivelarsi catastrofiche nel medio termine, e scelte apparentemente pessime possono dare luogo, più tardi, a effetti benefici. Tolti i suoi elettori, nonché i «sovranisti» europei, non c’è forse un solo occidentale che si rallegri per il fatto che alla Casa Bianca sieda Donald Trump. Date le propensioni nazionaliste (America First), anziché internazionaliste, del Presidente, è possibile che il mondo finisca davvero nel tritacarne delle guerre protezioniste. Ma ciò non significa che qualunque cosa faccia Trump sia sbagliata. Adesso che, sotto la sua pressione, i cinesi sono stati costretti a mettere in riga il proprio cliente, Kim Jong- un, nessuno, fra coloro che tempo fa accusavano Trump di drammatizzare troppo la questione coreana, ha più il coraggio di fiatare. Comunque la faccenda vada a finire, quella scelta di Trump si è rivelata saggia.
Prima di impegnarsi in esecrazioni anti- Trump per la decisione di abbandonare l’accordo nucleare con l’Iran voluto a suo tempo da Obama, bisognerebbe esaminare con freddezza la situazione. Certamente, le imprese europee che hanno visto riaprirsi, a seguito di quell’accordo, le porte del mercato iraniano, sono comprensibilmente preoccupate.
Però , va anche detto che il businessè una cosa importantissima ma che le questioni della guerra e della pace, della vita e della morte, lo sono di più. È di questo che qui si tratta. Ci sono due aspetti da considerare. Il primo riguarda gli scopi dell’accordo nucleare. Gli scopi originari (per gli occidentali) erano due: in primo luogo, ritardare il più possibile, allontanare nel tempo, meglio se di qualche decennio, il momento in cui l’Iran diventerà una potenza nucleare e in cui, per conseguenza, si nuclearizzerà l’intero Medio Oriente (a quel punto, anche l’Arabia Saudita e altri si procureranno la bomba). La denuncia dell’accordo da parte di Trump potrebbe compromettere il raggiungimento del suddetto obiettivo.
C’era però anche un secondo scopo: spingere l’Iran a «normalizzare» le proprie relazioni internazionali, ad abbandonare la politica estera aggressiva che ha sempre caratterizzato il suo regime. Questo secondo obiettivo è stato mancato, l’accordo, sotto questo profilo, è risultato un fallimento. L’Iran ha continuato ad essere un destabilizzatore del Medio Oriente come in passato. Anzi, di più (Siria, Iraq, Yemen, Libano, Gaza), dal momento che l’accordo sul nucleare gli garantisce un afflusso di risorse fresche convertibili in influenza politica, armi convenzionali, eccetera.
Lungi dal normalizzare le proprie relazioni internazionali, l’Iran, forte anche della sua alleanza con la Russia, è diventato sempre più aggressivo e minaccioso nei confronti di Israele (che ora può colpire — e ha appena colpito — anche dalla Siria) e dei sauditi. Ma oltre a una valutazione dell’accordo sul nucleare in rapporto alle attese che aveva suscitato, c’è anche un secondo aspetto da considerare. Riguarda il modo in cui l’America ha scelto di schierarsi rispetto alla grande divisione del mondo islamico (e, in questo caso, mediorientale) fra sunniti e sciiti.
L’11 Settembre del 2001 mostrò agli americani che quelle potenze sunnite (Arabia Saudita in testa) che erano sempre state loro alleate, avevano contemporaneamente «allevato» un mostro: Al Qaida (così come, in seguito, lo Stato Islamico) non era altro che una filiazione dell’ideologia islamica saudita. Da qui una scelta che in modi diversi (non si sa quanto consapevolmente) caratterizzò le politiche sia di Bush Jr. che di Obama. Due presidenti diversissimi ma accomunati dalla volontà di allentare il legame con i sauditi (sunniti) e aprire un canale con l’Iran, ossia con lo Stato-guida del mondo islamico sciita, nemico mortale dei primi. Con mezzi opposti (militari nel primo caso, diplomatici nel secondo) Bush e Obama segnalarono che una svolta era in atto — proprio a causa dell’11 Settembre — nella politica americana. Un effetto collaterale della guerra in Iraq del 2003 e dell’abbattimento del regime di Saddam Hussein da parte di Bush fu di spostare l’asse del potere in Iraq dalla minoranza sunnita (in precedenza dominante) alla maggioranza sciita. Ciò favorì proprio l’Iran, ne aumentò potenza e ruolo spostando l’Iraq nella sua area di influenza. E indebolì per conseguenza il peso delle potenze sunnite, sauditi in testa.
Con mezzi diversi (anzi, opposti) Obama non si è discostato da quell’orientamento di fondo. L’accordo sul nucleare con Teheran aveva diversi scopi ma confermava anche che l’America non era più disposta a mantenere il tradizionale legame privilegiato con l’Arabia Saudita. L’idea, in sé, non sembrava cattiva ma, come sempre nelle situazioni complicate, le scelte effettuate dalle due Amministrazioni generarono contraccolpi, scatenarono la reazione dei sunniti. La nascita dello Stato Islamico a cavallo fra Siria e Iraq è stata solo la più spettacolare manifestazione del contrattacco sunnita di fronte a decisioni americane che, di fatto, favorivano l’Iran sciita. Dal momento che il Medio Oriente non si è affatto stabilizzato e anzi è oggi ancor più caotico e pericoloso di prima, la scelta di Trump — in controtendenza rispetto a Bush e a Obama — di tornare all’antico, alla tradizionale alleanza privilegiata con i sauditi (e quindi con il mondo sunnita) contro gli iraniani, comunque la si giudichi, ha una sua logica, un suo senso.
Ha ragione? Ha torto? Non lo sappiamo. Una sola cosa sappiamo con certezza: nessuno qui ha la verità in tasca. Quando si tratta di Medio Oriente, i giudizi perentori sono sbagliati. Per definizione.
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