E adesso ricercano un premier politico: Giorgetti o Carelli

Fatto il Contratto, bisognerà trovare chi lo legga. Anzi: che «lo legga e lo spieghi ai nostri votanti» su piattaforma Rousseau o nei gazebo leghisti, spiegava ieri un esponente grillino.

A voler essere ancora un po’ più precisi: uno che lo legga, lo spieghi, lo porti al Quirinale, poi lo declami davanti alle aule parlamentari, se ne assuma la responsabilità, ne curi l’attuazione «promuovendo e coordinando l’attività dei ministri», così dirigendo «la politica generale del governo» nonché mantenendo «l’unità dell’indirizzo politico» (art. 95 della Costituzione). Non sarà forse un caso – non lo è – ma quel personaggio sul quale da settimane si aggrovigliano i sogni gialloverdi, comunemente definito «presidente del Consiglio», è il nome che resterà scritto sui libri di storia, che entrerà negli annali istituzionali, parteciperà ai consessi internazionali.

Colui il quale concentrerà su di sé il nocciolo duro del mandato di rappresentatività popolare. Dunque: non un Cetto Laqualunque, non un burattino, non un portavoce. Non un tecnico (quante ne sono state dette, contro i tecnici), non un «notaio neutro» (ma chi può esserlo, neutrale?), meno ancora una figura di rincalzo. Pare che finalmente ieri i contraenti Di Maio e Salvini ci siano arrivati senza residui dubbi. «Sarà un politico», hanno scoperto non senza che un «Eureka!» luminoso gli si stampasse sulle fronti. Peccato che da ieri, a oltranza, stiano bruciando sinapsi alla ricerca del prescelto. Prescelto da loro e non dagli elettori. La questione è una spirale soffocante che sembra senza via d’uscita. Nel chiuso di una stanza alla Camera, anche oggi, dovrebbero continuare ad arrovellarsi. Il numero due leghista Giorgetti o i fedelissimi Bonafede, Fraccaro, Spadafora? Meglio Carelli, magari: si sfogliano identikit, ma «ogni nome che esce è bruciato», spiegava Di Maio che ora davvero accarezza l’idea di spuntarla col proprio, di nome. Ma Salvini resiste e a metà giornata otteneva ancora una volta un formale (per quel che conta) impegno reciproco al passo di lato. «Salvini premier sarebbe per me l’onore più grande del mondo. Se avessi la certezza che andando al governo, anche non da premier, di poter fare cose utili per il Paese, mi metto in gioco e se serve faccio anche un passo di lato». Di Maio era costretto a rispondere sullo stesso tono. «Nessuno ce lo ha chiesto, ma se serve a far partire il governo, io e Salvini siamo pronti anche a stare fuori». Ma l’arte di governo impelle, e la loquacità trasparente di Di Maio non aiuta certo a districare il rebus. La vituperata idea della staffetta, fonte di sospetti e veleni, saliva e scendeva come sulle montagne russe. «Stiamo cercando una soluzione che sia politica… Non voglio giocare sui nomi… Le persone di cui stiamo discutendo devono avere la sensibilità politica già dentro di loro per affrontare i temi del contratto. E anche loro devono avere poi l’opportunità di realizzarlo… Con un mandato politico ben preciso». Trarne identikit sensato diventava rebus peggiore di quello della premiership. Uno di quegli elementi, ben oltre i 40 punti del contratto (sei dei quali «nodi che limeranno Di Maio e Salvini») che fanno impazzire i mercati e parlare di pericoloso dilettantismo. Con buona pace del Salvini che ieri attaccava gli «eurocrati», lamentava il ricatto dello spread e i media che «insultano», includendo tra essi «anche il giornale di casa Berlusconi… Più ci minacciano e ricattano, più mi viene voglia di partire con questa sfida», diceva Salvini. Messaggio anche per il Cav, aggiungeva, «perché il tradimento non è nel mio Dna». Neppure, nel nostro, esser ciechi, sordi e muti.

IL GIORNALE

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