Una questione di libertà
Il cuore del contratto di governo sottoscritto da Luigi Di Maio e Matteo Salvini batte nelle poche righe in cui si progetta la reintroduzione del vincolo di mandato. Si dice reintroduzione perché l’unica volta in cui il Parlamento ne fu assoggettato risale ai tempi di Benito Mussolini. Non lo si ricorda per rivestire di camicia nera la nostra coppia, ma per dare la dimensione dell’enormità. Anche l’Urss di Stalin s’era dotata di vincolo di mandato, per cui il parlamentare rispondeva al Partito comunista: ognuno si prenda il paragone che preferisce.
Oggi la Costituzione vieta il vincolo di mandato. Chi è eletto, è parlamentare della Repubblica, non di un partito, e non deve rendere conto a nessuno, né al capo, né al gruppo politico, nemmeno alla circoscrizione o al collegio che l’ha votato, perché non ha altro padrone che la coscienza (sempre che ne abbia una) e l’interesse nazionale. Cioè, l’interesse di tutti, non di chi lo ha eletto o di chi lo ha candidato. Così dice la Carta, e siccome Di Maio e Salvini si apprestano a mettere in piedi un governo, è chiaro che intendono modificarla, e nell’entusiasmo dei loro sostenitori. Siccome il vincolo di mandato risiede anche nei programmi di Silvio Berlusconi (passato dalla rivoluzione liberale a cenni di rivoluzione illiberale) e Giorgia Meloni, se si mettessero tutti assieme avrebbe i due terzi dei voti necessari alla riforma costituzionale. Altrimenti potrebbero fare a maggioranza assoluta e poi affidarsi a un referendum. Il margine c’è.<
Non sarebbe soltanto lo stravolgimento di un caposaldo della nostra democrazia, ma il modo di mettersi al di fuori delle democrazie occidentali. Non ce n’è una col vincolo di mandato. Tutte si rifanno alla Costituzione della rivoluzione francese, approvata nel 1791, e che abolì il vincolo così centrale nell’Ancien Régime della monarchia. Tutte persuase che la libertà del parlamentare preservi dalle naturali tendenze dittatoriali dei partiti: un modo saggio di limitarsi e tutelarsi a vicenda. Eppure il contratto di governo cita a esempio e un po’ a vanvera la Spagna (che ha solo scritto regolamenti parlamentari più rigidi, mentre in Costituzione c’è il mandato libero) e il Portogallo (che vieta ai parlamentari di iscriversi ad altri partiti, ma non di passare al gruppo misto). Bisognerà ora vedere che cosa hanno in testa Lega e Cinque Stelle. Dalle proposte sentite fin qui, si tratta di mandare a casa chi decide di votare in dissenso dal partito, e sostituirlo con uno più ubbidiente. Una bella bizzarria. Vietato cambiare idea e vietato farsene una in proprio.
A che serve allora eleggere i parlamentari se decide il partito? Basta un parlamentare che voti per tutti. E a che serve avere un Parlamento dove, appunto, si parla per far cambiare opinione agli altri, se agli altri è vietato cambiarla? Ecco, se nessuno si offende, sembrerebbe un passettino verso un regime autoritario, un po’ fascista, un po’ sovietico, vedete voi, nel quale gli eletti non hanno autonomia e pochi, pochissimi decidono quello che è bene e quello che è male. Specialmente in una Repubblica come la nostra in cui il presidente del Consiglio dovrebbe essere scelto dal capo dello Stato, e in cui il governo sarà controllato, sempre secondo contratto gialloverde, da un Comitato di conciliazione, ovviamente costituito dai leader di partito. Perfetto: il governo prigioniero dei partiti, il Parlamento prigioniero dei partiti, e nell’ampia esultanza in antipatia ai voltagabbana. Poi, un giorno, ci accorgeremo che i voltagabbana – anche se sono troppi, come succede da noi – vivono nelle democrazie e muoiono nelle tirannie.
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