Quel walzer dei bluff grillini per raggirare il leader leghista
Alla buvette di Montecitorio, il già candidato alla presidenza della Camera e ora alla premiership, Emilio Carelli, ricorre al latinorum per schermirsi da tanto successo: «In regno caecorum, monoculus rex: nel regno dei ciechi è re, chi ha un occhio solo.
Ma non è così, non sarò io il premier. Mi dispiace solo di non poter parlare in tedesco con la Merkel e in francese con Macron. Mi chiede se alla fine tanti candidati Cinque stelle servano per tornare al nome di Di Maio? Beh, è un’ottima strategia».
Fuori Montecitorio, mentre continua la giostra di nomi grillini per Palazzo Chigi (da Carelli a Vincenzo Spadafora, da Vito Crimi, a Alfonso Bonafede e a Riccardo Fraccaro), Laura Castelli, deputata grillina ammessa al tavolo programmatico con la Lega, tenta di dare un senso a questa ridda di candidati senza senso. «Contano – spiega i vicepremier (cioè, Di Maio e Salvini, ndr), il premier sarà solo un personaggio di facciata». Singolare interpretazione che fa inorridire il Quirinale, perché il presidente del consiglio sarebbe una sorta di segretario, un passacarte dei due «vice». Un tale azzardo fa propendere per l’ipotesi che la strategia grillina sia proprio quella di bruciare tanti nomi, per poi tentare di tornare a Di Maio.
Almeno questa è l’interpretazione che dà, di questa serie di bluff, Matteo Renzi. Alla buvette del Senato, infatti, l’ex-segretario del Pd, sempre più in fase zen («questa sera torno a casa per portare i miei figli a cena, visto che mia moglie ha un impegno con le amiche»), si cala, da spettatore disinteressato, nei panni dell’analista politico.
«I grillini è la sua previsione – vogliono tornare a candidare Di Maio. Un candidato che farebbe male, molto male a Salvini. Di Maio è un personaggio che si legittimerebbe in Europa. Conoscendo la sua spregiudicatezza diventerebbe il più europeista di tutti. Magari aderirebbe ad En march! di Macron. Se il governo fallisse nelle sue politiche, ipotesi più che probabile, sarebbe capace di aprire lui la crisi, andando al voto da Presidente del Consiglio, dando la colpa a Salvini».
Paradosso dei paradossi, l’ultimo a subdorare che la strategia grillina è proprio quella di tornare a Di Maio, è stato, invece, Matteo Salvini, che, solo nell’incontro di ieri mattina con il leader grillino, ha mangiato la foglia decrittando quella cascata di parole che gli ha riversato addosso il suo interlocutore. E la cosa non lo ha reso felice. Anche perché il leader leghista ha intuito, che, lassù sul Colle, tifano per quella parte. Il motivo è semplice: Mattarella vuole come premier un interlocutore politico di peso, un «premier di facciata» non gli permetterebbe di condizionare il governo; e tra i due leader, inutile dirlo, ha più feeling con Di Maio che non con Salvini. Tant’è che da ieri ha cominciato a premere. A metà mattinata, infatti, si è intravisto nel Transatlantico di Montecitorio, il periscopio del Colle in Parlamento, Francesco Garofani, già deputato del Pd e ora consigliere per i rapporti istituzionali. In poche parole, è l’inviato del Quirinale, che annusa l’aria che tira in Parlamento e porta i messaggi del Quirinale.
«Il presidente ha confidato Garofani ad un ex deputato di Forza Italia è furibondo. Questi parlano del contratto, che per il presidente è un documento tra privati cittadini. Quello che conta, invece, è il nome del premier. È lui che deve tenere le fila del governo». Un modo per dire che il tempo sta per scadere, bisogna far presto. Mattarella vuole un interlocutore politico, il grillino.
Lo hanno capito con un certo disappunto anche i parlamentari della Lega. «Purtroppo si lamenta Erika Stefani a Palazzo Madama sarà un premier dei Cinque stelle. Almeno così sembra. E gira sempre il nome di Di Maio. Forse è meglio così, almeno si dimostra subito che non vale: ma come fa un parlamentare di seconda legislatura, che è stato solo all’opposizione, a fare il premier? A me vengono i brividi, la pelle d’oca solo a pensarlo».
Eh sì, malgrado nessuno ne parli e tutti facciano finta di niente, conta anche il curriculum, l’esperienza che si sono maturate nella pubblica amministrazione e «non»: un curriculum che nel caso del leader grillino è davvero scarno, per non dire bianco. Solo che Salvini è in un cul de sac: da una parte l’idea di avere Di Maio premier non gli piace; può accettare lo schema del premier indicato dai 5stelle, visto che nella coalizione il peso dei grillini è sicuramente superiore a quello della Lega sul piano parlamentare, ma non il loro leader. Ieri ha ripetuto: «Né io, né Di Maio saremo premier».
Dall’altra, il leader del Carroccio non può arrivare al punto di rompere l’intesa. In realtà dentro la Lega c’è stato uno scambio di posizioni. In un primo tempo era stato Giancarlo Giorgetti, il plenipotenziario leghista, a caldeggiare l’accordo giallo-verde, mentre Salvini era prudente. Adesso, preso atto che la premiership probabilmente andrà ai Cinque stelle, Giorgetti si è fatto silenzioso e vorrebbe un ripensamento, ma Salvini è pronto ad uno scontro sul nome del Premier con i Cinque stelle, ma ha problemi a far saltare l’intesa. «Se non facessimo questo governo è la sua tesi ci rimetteremmo ancora di più».
Solo che l’idea di un premier grillino, di fatto, sta mandando all’aria la coalizione di centrodestra: sia Forza Italia, sia Fratelli d’Italia (ieri la Meloni ha messo il Carroccio fuori dal centrodestra) sono pronti a votare contro, attirandosi le minacce del leader della Lega. Ma i limiti dell’accordo sono evidenti a tutti. Il «contratto» è sempre in divenire e, per dirne una, nei vari punti, 16 righe sono dedicate alla politica estera, mentre due pagine allo sport. Forse un modo tardivo per esorcizzare l’eliminazione dell’Italia dai mondiali di calcio in Russia. «Salvini è una delusione è la sentenza dell’azzurro Roberto Occhiuto – la vittoria alle elezioni lo ha reso ubriaco. L’establishment, in cerca di posti, e i professori hanno cominciato a corteggiarlo. E lui, inebriato dal Potere, non ci ha capito più niente».
Appunto, il Potere. Nel ridisegnare la mappa la nuova maggioranza ha lanciato i primi segnali: ha ridotto l’autonomia finanziaria al Coni di Giovanni Malagò, inviso alla Raggi; e ha fatto sapere che Mps resterà pubblica. Anche leghisti e grillini d’ora in avanti avranno una banca.
IL GIORNALE