L’app che ti dice dove si trovano i figli
Il controllo parentale – questa la triste resa offerta dal Google traduttore – di cui Alessia Marcuzzi ha offerto un breve saggio mostrando in televisione di sapere dove si trova suo figlio a qualsiasi ora del giorno e della notte, in realtà è un’arte, che nell’antichità veniva esercitata da genitori dotati di carattere, astuzia e tenacia. Erano quelli che non consentivano l’istallazione di segreterie telefoniche perché potevano essere utilizzate per messaggi del tipo «stasera dormo dalla mia amica della palestra, ci vediamo direttamente domani dopo la scuola» e consentire così un black-out filiale di almeno 22 ore. Erano anche quelli che a un certo punto, all’uscita dal cinema o dalla lezione di nuoto, te li ritrovavi alle spalle come falchi pellegrini, mentre pensavi fossero in ufficio o a preparare merende. In assenza di cellulari, consapevoli che la scusa dei gettoni telefonici introvabili era tanto frusta quanto inossidabile, avevano sviluppato una sorta di telepatia per presentire, intuire, subodorare, leggere dettagli apparentemente insignificanti come i chiari indizi di una manovra in corso, non necessariamente illegale, ma comunque passibile di sanzione.
Alessia Marcuzzi: “Geolocalizzo mio figlio Tommaso per sapere dov’è”
Se dunque non si è definitivamente perduto il gene del genitore asfissiante e controllore – come l’esistenza di mamme texane dimostra – ciò che si è col tempo dispersa è la ratio che presiedeva alla vigilanza. Per i genitori dell’antichità infatti, il controllo era subordinato a due ulteriori attività, anch’esse esercitate con imperturbabile fermezza (in alcuni casi, ammettiamolo, c’era anche del sofisticato sadismo): impedire e punire. Non venivi controllato così, tanto per sapere che stavi facendo o scambiare due chiacchiere. Venivi controllato al preciso scopo di essere punito (si diceva «educato», ma il termine in questa accezione è caduto in disuso). E non c’era niente da ridere.