Le novità politiche (e i rischi) per il Paese

Quello che sta nascendo è un governo del direttorio. Mette fine alla fase rivoluzionaria del nuovo potere, legittimato del resto da ogni voto dal 4 marzo fino a ieri in Val d’Aosta; e, con un compromesso sulla figura del presidente del Consiglio, modifica sostanzialmente la Costituzione materiale che regge l’Italia dal 1948. A guidarlo è chiamato un non parlamentare, e questo suona paradossale per partiti che hanno fino a ieri protestato contro i «quattro premier di fila non eletti» succedutisi da Monti a Letta, da Renzi a Gentiloni. Conte sarebbe infatti il quinto,a conferma del fatto che nelle urne si elegge il Parlamento e non il governo, ma anche di una grave crisi di funzionamento del nostro sistema politico. Pur decisamente meno noto dei «tecnici» precedenti, Conte offre garanzie di continuità culturale con l’establishment e la tradizione, perché uomo di diritto e con esperienza istituzionale. Ma è stato scelto alla fine di un processo senza precedenti. Nominato prima di essere incaricato, subordinato a un contratto sottoscritto da altri, rischia di essere un premier debole dopo venticinque anni di ricerca spasmodica del premier forte.

Un’inversione della storia della Seconda Repubblica, ma che non ci riporta affatto alla Prima Repubblica e al suo assemblearismo. Anche ai tempi della partitocrazia, infatti, il governo si reggeva su premier deboli e partiti forti, ma con una grande differenza: lo strapotere dei parlamentari che, costituiti in correnti e grazie al voto segreto, indirizzavano l’esecutivo e ne condizionavano il programma. Se Di Maio e Salvini terranno fede al loro contratto, invece, il residuo di libertà politica dei parlamentari sparirà del tutto insieme con la libertà del loro mandato. Deputati e senatori diventerebbero marionette nelle mani dei leader. È dunque importante che il premier non sia un burattino, come paventava ieri la tv Bloomberg. Altrimenti resterebbero forti solo i partiti, e deboli le istituzioni. Mattarella ne è consapevole, e ha avvertito Di Maio e Salvini.

Cinquestelle e Lega, che non si definiscono neanche partiti, sono in ogni caso formazioni autocratiche, basate cioè sul comando diretto e al bisogno plebiscitato, via on line o nei gazebo. Se ne deve dedurre che andiamo incontro a una nuova Repubblica autoritaria?

La risposta è no, o almeno non necessariamente. I rischi ovviamente ci sono. Ma la riforma costituzionale prevista nel programma sposta piuttosto la barra in direzione di forme di democrazia diretta. Se davvero introdurranno i referendum propositivi e aboliranno il quorum per quelli abrogativi, il nostro processo legislativo diventerà infatti molto simile a quello della Svizzera, che non è certo un’autocrazia (tra parentesi, è il solo Paese europeo dove resiste il governo del direttorio). Altra questione è se possa funzionare un governo quasi «duale», non diretto cioè dal presidente del Consiglio ma da un programma, come sostiene Di Maio. Può reggere la prova della complessità e il rapporto con il resto del mondo? Può reggere il confronto tra la quantità e la portata delle aspettative suscitate e i mezzi e le risorse effettive di cui disporrà? Qui è lecito avere molti dubbi. I governi hanno un leader legittimato dal voto popolare in tutt’Europa, e risulta difficile immaginarli seduti intorno al tavolo delle decisioni comuni, a Bruxelles, mentre aspettano che il premier italiano si consulti a Roma con il suo consiglio di sorveglianza prima di apporre la firma dell’Italia. Ancor più pericolosa sarebbe l’idea di infischiarsene degli altri, mercati, governi europei, opinioni pubbliche straniere, come è parso in certe reazioni scomposte a critiche che vengono dall’estero, fortunatamente corrette ieri da Salvini, che ha invitato i partner europei a non temere il nuovo governo. Siamo infatti molto più interdipendenti di quanto certi «sovranisti» lascino credere agli italiani. Il battito d’ali di una farfalla in un’agenzia di rating può produrre tempeste sugli interessi che paghiamo sul nostro ingente debito pubblico (il volo dello spread già ce lo ricorda). E in Europa gli altri governi rispondono al loro interesse nazionale e ai loro elettori non meno del nostro, e dunque è ingenuo pensare di poterli piegare mostrando i pugni.

L’Italia sta per cominciare una nuova avventura politica, in terre incognite. A Mattarella e ai due partiti andrà riconosciuto il merito di aver fatto nascere un esecutivo, opera che sembrava pressoché impossibile dopo il voto del 4 marzo: gli italiani preferiscono un governo a nuove elezioni. Ma la tenuta del bilancio pubblico e dunque dei risparmi, e il rispetto delle alleanze internazionali del nostro Paese sono beni più importanti del governo pro tempore, e infatti sono protetti dalla Costituzione. Al Presidente spetterà dunque di esercitare i suoi poteri di incarico del capo del governo e di nomina dei ministri nel pieno delle sue prerogative, a cominciare dalle scelte per gli Esteri e l’Economia. Al Parlamento e all’opinione pubblica competerà sorvegliare perché il cambiamento, tanto atteso da tanti italiani, non si trasformi in un salto nel buio.

CORRIERE.IT

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