Polemiche o no, l’Unione europea va cambiata
mario deaglio
Se è consentito usare una metafora calcistica, nella grande partita della politica (e dell’economia) italiana, il vero scontro sta avvenendo prima che la squadra della politica esca dagli spogliatoi. Tale scontro deriva dal contrasto tra l’allenatore (il Presidente della Repubblica) e il capitano della squadra (il presidente del Consiglio incaricato) sul mandare, o non mandare, in campo, in un ruolo chiave di attaccante (quello di ministro dell’Economia) un giocatore conosciuto – a livello tecnico – e cioè il professor Paolo Savona.
Paolo Savona conosce assai bene, dentro e fuori, per lunghissima esperienza diretta, la macchina economica dello Stato, con le sue difficoltà pratiche e i suoi problemi teorici. Il suo saggio sui «Lineamenti di una riforma che tuteli il risparmio in Italia», pubblicato l’anno scorso nel Rapporto della Fondazione Cesifin, potrebbe esser preso tal quale come abbozzo, a stadio già molto avanzato, di una politica realizzabile di difesa del risparmiatore. Vale assai più delle frettolose dichiarazioni d’intenti di ieri («chi è stato truffato sarà risarcito») del presidente del Consiglio incaricato. E’ una delle stranezze della politica – e uno dei guai di questo Paese – che un tecnico con forte carica intellettuale venga issato sulle bandiere di una coalizione di governo che si fa vanto di trattare con disprezzo gli intellettuali e di manifestare il proprio disinteresse per le dimensioni tecniche dei problemi.
I dubbi di Savona sull’Europa sono in realtà molto diffusi. Savona li esprime spesso in forma polemica, pungente ed estrema ma questo non vuol affatto dire che nell’eventuale programma di ministro ci sarà l’attivazione di una procedura di uscita dall’euro o dall’Unione Europea. In ogni caso, tale procedura, come dimostra l’esperienza inglese, è lunga, incerta, pericolosa e costosa. Che Savona sia chiamato o no in campo, un processo di profonda revisione e rifondazione dell’Unione Europea è alle porte. Ciò che Savona dice a voce troppo alta non è molto distante da quanto mezza Europa (o più) sta dicendo in maniera più sommessa ed è chiaro che l’argomento «rifondazione» sarà ineludibile dopo le elezioni europee della prossima primavera.
Alla rifondazione dell’Europa, l’Italia rischia di andare scarsamente preparata proprio per il pressappochismo dei nuovi politici, molti dei quali sostengono allegramente che l’Italia farebbe bene a non rimborsare una quota del suo debito pubblico. Il pregiudizio anti-italiano nell’Unione è in parte immaginario: è sufficiente, a questo proposito, leggere le raccomandazioni ai Paesi membri diffuse ieri dalla Commissione di Bruxelles, nelle quali è scritto che l’Italia ha «sostanzialmente ottemperato» ai suoi obblighi in materia di debito, mentre esiste un «problema tedesco» per il freno che la politica economica di Berlino impone al resto dell’Europa con l’imbarazzante surplus del suo bilancio pubblico.
La prima cosa da richiedere ai tedeschi è di eliminare il saldo attivo del proprio bilancio pubblico e utilizzare una parte di quelle risorse per sostenere la crescita europea, anche perché nemmeno in Germania tutto sta andando perfettamente: due giorni fa, il nuovo amministratore delegato della maggior banca tedesca ha annunciato un taglio di oltre 7 mila posti di lavoro. Nel Centro Congressi di Francoforte, l’assemblea dei soci ha avuto toni accesi non dissimili da quelli di recenti assemblee di alcune banche italiane in difficoltà. Sono questi i principali motivi per cui non bisogna andar via dal tavolo ma, anzi, sedersi, garbatamente e fermamente, sulla propria sedia.
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