Mattarella un cuneo fra i sovranisti
In una crisi che sembrava avvitata e senza sbocchi, improvvisamente ieri si è prodotto un potente fattore di novità. Non è ancora chiaro se questo sarà sufficiente a sbloccare lo stallo, ma il cambiamento di fronte è notevole e va registrato. Invertendo una dinamica che sembrava consolidata, Sergio Mattarella è infatti riuscito a incunearsi nel fronte «sovranista» e a dividere i dioscuri del cambiamento. Da una parte Luigi Di Maio, dall’altra Matteo Salvini. Uniti nell’attacco al Quirinale, «servo della Germania e delle agenzie di rating» solo 48 ore prima. La svolta arriva alle 17.30, quando la deputata Laura Castelli, vicinissima a Di Maio, a sorpresa si rivolge in modo perentorio al professor Savona: «Stupisce che non abbia ancora maturato la decisione di fare un passo indietro». Un cambiamento radicale di posizione, se si pensa che il giorno prima i grillini chiedevano la messa in stato d’accusa di Mattarella proprio per non aver voluto nominare Savona all’Economia suggerendone uno spostamento in un altro dicastero. Preannunciata dalla nota di Castelli, ecco che la richiesta del passo indietro a Savona diventa la posizione ufficiale di Di Maio dopo un incontro al Quirinale con il capo dello Stato.
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La mossa a sorpresa del capo M5s, dovuta al timore per un arretramento nei sondaggi e per gli scricchiolii della sua leadership interna (ieri nell’assembla dei gruppi parlamentari grillini per la prima volta si sono alzate voci di critica), è tale da aver riaperto i giochi. Ora, come si dice con una metafora abusata, il «cerino» è in mano al segretario leghista. Se accetta di spostare Savona, già domattina – come maliziosamente gli suggerisce il grillino Fraccaro – potrà sedersi al Viminale per iniziare a espellere i clandestini. Altrimenti sarà sua la responsabilità di aver fatto precipitare il Paese alle urne in piena estate, con tutti i rischi del caso. L’alternativa Cottarelli è infatti piena di incognite. Chi dovrebbe votare il governo del Presidente? Nessuno. Né Salvini, né tantomeno i grillini. Persino il Pd si è chiamato fuori, per non farsi massacrare in campagna elettorale a causa del sostegno all’ennesimo governo tecnico.
Secondo la Costituzione se un governo non ottiene la fiducia e non esiste un’altra maggioranza, il Capo dello Stato ha il dovere di procedere senza indugio allo scioglimento delle Camere. Traccheggiare per far piacere a Salvini e trascinare la legislatura fino a settembre appare impervio. Ieri in Transatlantico fiorivano congetture su ipotetici ordini del giorno, sottoscritti da tutte le forze politiche, per chiedere al Presidente di «procrastinare» lo scioglimento e consentire così alle Camere di approvare una mini-manovra per scongiurare almeno l’aumento dell’Iva e arrivare al voto a fine settembre. Perfino se il Capo dello Stato prendesse in considerazione questa ipotesi, sarebbe del tutto evidente la debolezza di un espediente ai limiti della costituzionalità.
Per Mattarella la soluzione più lineare resta quella del «governo politico» affidato ai vincitori del 4 marzo. Ecco perché ha deciso di aspettare ancora prima di far suonare la campanella dell’ultimo giro. Stavolta ha dalla sua parte nuovamente Luigi Di Maio, che ha capito di aver commesso un errore strategico con la richiesta di impeachment e, da politico ormai navigato, ha fatto marcia indietro senza pensare all’orgoglio personale. Chissà quanto deve essergli infatti costata ieri quella salita al Colle che somigliava tanto a un’andata a Canossa. Ma nella guerra di nervi con Salvini, Di Maio ieri ha segnato un punto. La parola ora è al leader della Lega. Mattarella intanto ha già vinto la sua mano: se anche il M5s arriva a chiedere a Savona di fare un passo indietro, evidentemente le questioni poste dal Colle non erano peregrine; e dopotutto far partire il «governo del cambiamento» dovrebbe essere per Salvini un obiettivo più importante che impuntarsi sulla casella del professor Savona.
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