Di Maio per adesso si salva. Ma M5s resta una polveriera

Il prezzo per arrivare al governo potrebbero essere state le piroette degli scorsi giorni. Luigi Di Maio, con il ritiro dell’impeachment nei confronti di Sergio Mattarella e la proposta di spostare Paolo Savona in una casella che non sia l’economia, ha imposto l’accelerazione decisiva per arrivare all’accordo giallo verde.

Per il capo politico non c’erano alternative alla formazione di un esecutivo con la Lega di Salvini. Così, il rischio di rimanere invischiato nelle polemiche interne al M5s con la possibilità concreta di giocarsi la faccia e la carriera, ha spinto il leader pentastellato a uscire dall’angolo. E, secondo alcune fonti, in caso di voto anticipato, la posizione di Di Maio sarebbe stata pesantemente insidiata dal revanscismo di Beppe Grillo e dal ritorno sulla scena di Alessandro Di Battista. Lo stesso comico, prima dell’ultima capriola del capo politico sulla messa in stato d’accusa di Mattarella, aveva mandato un avvertimento alla moderazione dalle colonne del Fatto Quotidiano.

Il varo del governo sembra arrivato al traguardo, dunque. Ma il M5s rimane una polveriera. Mercoledì sera, in una riunione informale di una quarantina di parlamentari, Di Maio è stato messo sotto accusa. Bruciava l’attivismo di Salvini che, fino a quel momento, aveva dato le carte al grillino. Un deputato presente ai vertici incriminati, con Il Giornale ha smentito a metà, parlando di «una riunione piuttosto tranquilla» o comunque «non meno tesa rispetto ad altre circostanze nelle quali Di Maio era stato già al centro della polemica».

Ieri però la temperatura interna è salita sull’ipotesi di un entrata nel governo di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, nelle vesti di ministro della Difesa. E il capo politico, pressato da alcuni parlamentari, è stato costretto a fare la voce grossa con Salvini, ponendo il veto sulla Meloni. «Sarebbe un esecutivo troppo sbilanciato a destra – è stato il ragionamento consegnato dai fedelissimi a Di Maio – avremmo problemi interni».

Nel frattempo sui profili social del leader stellato si sprecavano gli inviti «a evitare la Meloni» e la paura di «far entrare un secondo membro del centrodestra all’interno del contratto». Addirittura, in privato, dei parlamentari Cinque Stelle evocavano ancora lo spettro di Berlusconi, il terzo alleato. E sempre su Facebook: «Il discorso Meloni non deve entrare proprio in questa fase», «Già è poco digeribile Salvini, ma non si può fare altrimenti, Fdi no». E alla fine la leader di Fratelli d’Italia ha annunciato la sola astensione sul voto di fiducia al governo giallo verde.

Tornando al nome di Paolo Savona, il ministro sul quale si era incagliata la trattativa, da ambienti leghisti trapela un’indiscrezione. Il nome dell’economista è anche «espressione di Davide Casaleggio» e molto gradito al guru pentastellato che, durante i quasi 90 giorni di crisi, avrebbe continuato a mantenere contatti, molto riservati, con i massimi vertici leghisti. Mentre Di Maio avrebbe preferito evitare il braccio di ferro con il Quirinale sul nome del professore critico sull’Europa. In questo schema di gradimento «aziendale» del discusso economista rientrerebbe il mezzo dietrofront del capo politico proprio su Savona. Con Laura Castelli che prima aveva chiesto un «passo indietro», poi corretta da Di Maio verso la soluzione di uno spostamento dell’ex ministro di Ciampi dall’Economia verso un’altra casella, quella delle Politiche Comunitarie. Un vero e proprio blitz è stata la nomina a ministro delle Infrastrutture di Danilo Toninelli, al posto di Mauro Coltorti. Il geologo era troppo anti Tav? In ogni caso la nomina di Toninelli aprirà due problemi interni. Il primo: quest’ultimo è senatore e quindi non voterà in Parlamento. Già la maggioranza pentaleghista è risicata a palazzo Madama, così si perde una pedina. Il secondo: come la Grillo alla Camera, Toninelli era capogruppo al Senato. Per i sostituti si aprirà presto una guerra interna.

IL GIORNALE

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