Pure Salvini cede. Tutti soddisfatti nessuno contento

Alla fine non è stato neppure quello che doveva essere, «il governo Giamaica», per usare una felice espressione del vice-presidente dei deputati azzurri, Roberto Occhiuto, cioè frutto di una maggioranza con i colori della bandiera dell’isola caraibica, il giallo dei grillini, il verde leghista e il nero di Fratelli d’Italia.

Alla fine anche quell’opzione è saltata. «Speriamo che non si siano fumati l’impossibile», ironizza Giorgio Mulè, portavoce di Forza Italia. Invece deve essere andata proprio così, perché, dopo aver gridato ai quattro venti l’ingresso al governo di Georgia Meloni, alla fine Matteo Salvini ha subito il veto di un «redivivo» Luigi Di Maio che, spinto dall’ala ortodossa del movimento, ha avuto il coraggio di dire no. Risultato: il leader leghista è finito nel mirino di Fratelli d’Italia. «Er bugia ha colpito ancora – è stato il sarcasmo in romanesco di Fabio Rampelli -, è la terza volta che ci promette una cosa che non fa. C’è da capirlo: voleva le elezioni a tutti i costi e alla fine gli hanno messo la camicia di forza. Ci ha usato per aumentare il suo potere contrattuale con i grillini. E ora, visto che Giorgia si è sbilanciata troppo, noi dovremo anche astenerci». Inutile aggiungere che, in queste condizioni, la nuova edizione del governo giallo-verde partirà ancora più debole. «Questi alla prima curva scommette Occhiuto finiranno fuori strada».

Ma allora, uno si chiede, perché Salvini ha accettato un governo senza il professore Paolo Savona all’Economia, cioè il simbolo di quello che doveva essere nei suoi sogni «l’uomo giusto al posto giusto» del governo del cambiamento, e senza Fratelli d’Italia? Perché anche lui si è accorto di essere più debole di quanto pensasse: l’impennata dello spread ha messo paura al suo elettorato di riferimento del Nord, piccoli imprenditori e partite Iva; e lui ha dovuto adeguarsi ai segnali minacciosi dei mercati e della Ue. «Magari – confida Massimiliano Fedriga, neogovernatore leghista del Friuli – a noi poteva convenire di andare alle elezioni, ma se affrontavamo quest’estate con il governo Cottarelli, senza maggioranza, avremmo corso il rischio dello shock finanziario e tutti se la sarebbero presa con noi. Saremmo diventati il capro espiatorio…».

Alla fine anche lo schiacciasassi del Nord, il Vercingetorige dei barbari (per usare l’espressione del Financial Times) ha dovuto fare i conti con la realtà che non gli piace, quella che si muove sul triangolo Bankitalia-Bce-Bruxelles. I totem che hanno messo il veto su Savona. Anche lui ha avuto paura. E anche lui è stato costretto al «compromesso». Ha dovuto accettare lo spostamento del Professore alle politiche comunitarie. «Una scelta incomprensibile osserva il fido braccio destro del Professore, cioè Antonio Rinaldi -, perché se Savona, come hanno detto, non piace all’Europa, averlo messo in quel posto equivale a nominare Dracula direttore dell’Avis!». Ma la cartina di tornasole è soprattutto nel personaggio che ha sostituito Savona al ministero dell’Economia, il professore Giovanni Tria: un altro professore, un altro tecnico, di quelli che sono stati per anni bersaglio del populismo nostrano, mentre ora ci vanno a braccetto. Un accademico che, nelle sue prese di posizione recenti, chiedeva l’aumento dell’Iva per finanziare la flat tax, criticava il «contratto» 5stelle-Lega o echeggiava i ragionamenti di Savona sull’euro. «Insomma, uno che assume all’occasione posizioni diverse – confida chi lo conosce bene -: è stato vicino a Brunetta, ad Alfano e ora penso che, di recente, abbia scoperto Salvini. È uno che dialoga sempre con l’area del centrodestra che in quel momento è più vicina al governo». Tutto, quindi, può essere, meno un uomo simbolo, alla Savona. Semmai è un personaggio alla Zelig, una fotocopia del premier, Giuseppe Conte. O, ancora, del ministro degli Esteri Moavero, che ha lavorato con Monti, Enrico Letta, ha litigato con Renzi ed è tornato a collaborare con Gentiloni, giusto il tempo per far perdere a Milano la battaglia per avere la sede dell’Ema. «Eppure – diceva, poco prima che l’intesa fosse siglata, il leghista Guido De Martina -, dopo che Mattarella è andato nei guai, Di Maio è andato nei guai, Salvini, per non andare nei guai, avrebbe bisogno di uno come Savona all’Economia…».

In realtà, tra tante rinunce, la scelta di Tria indica la filosofia con cui Salvini pensa di usare questo governo. Ieri mattina, nell’incontro al Quirinale, il Presidente del Senato, Elisabetta Casellati, ha chiesto a Mattarella: «Non varrebbe la pena coinvolgere nel governo l’intero centrodestra? La maggioranza sarebbe sicuramente più stabile». «L’ho suggerito a Salvini – è stata la risposta del capo dello Stato -, ma non ne ho saputo più niente».

La verità è che a Salvini lo schema gialloverde sta bene: con il governo vuole attrarre verso la Lega tutti i mondi del centrodestra, vuole fagocitare tutto ciò che ruota attorno a Forza Italia e a Fratelli D’Italia. La nomina di Tria risponde solo a questa logica. Poi, ci saranno le nomine che il governo dovrà fare. «Noi – per ripetere quello che teorizzava qualche settima fa Alberto Bagnai, uno degli economisti di riferimento di Salvini – al primo punto del programma avremmo potuto mettere anche l’incendio di Nerone. Non è quello l’importante. L’importante sono quelle 200-300 nomine che stanno venendo a scadenza».

Per cui non è essenziale che il ministro dell’Economia abbia qualche riserva sul «contratto» che dovrebbe attuare. In fondo non ha partecipato neppure alla sua stesura, a differenza di Savona. Semmai, è arruolare un’altra intelligenza nello schema di governo. Insomma, l’incontro tra Salvini e Di Maio avviene sul terreno del Potere. Solo su quel terreno possono incontrarsi populismi di estrazione diversa: i lepenisti, i podemos, i Varoufakis del momento. Il collante è una sorta di neodoroteismo alla Rumor. Basterà? L’esperienza di Matteo Renzi ha dimostrato di no. In fondo la vicinanza delle culture, dei programmi conta ancora. «La rottura del centrodestra – osserva il segretario organizzativo di Forza Italia, Gregorio Fontana – non è stata certo colpa di Berlusconi. Voglio vedere quando Salvini, come ha promesso, metterà 100mila emigranti alla porta, se i grillini alla Fico non li faranno rientrare dalla finestra».

Quindi, tutti soddisfatti ma nessuno contento. Né Mattarella, finito al centro delle polemiche. Né Di Maio, ormai criticato pubblicamente dai suoi. Né Salvini, che, negli ultimi giorni, ha scoperto quanto possono essere spietati coloro che muovono i mercati. Diceva tre giorni fa il responsabile in Italia di un fondo americano: «Le parole pesano, i fatti pesano, le dirette Facebook pesano». Ora il governo c’è, ma non è detto che a quei mondi piaccia il colore gialloverde.

IL GIORNALE

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