Il nuovo governo, un’alleanza conflittuale
Non è sicuro che il matrimonio appena celebrato fra i 5 Stelle e la Lega possa dare vita a un’unione duratura. La condivisione del potere, naturalmente, è di per sé una garanzia di durata. Così come l’esistenza di notevoli, e a tutti note, affinità ideologiche: il sovranismo (frutto di una condivisa diffidenza per l’Occidente e per certi aspetti della società aperta e globalizzata), una comune esaltazione
del «popolo» contro le élites di ogni genere, eccetera. Però, accanto alle somiglianze ci sono anche rilevanti differenze. Alcune di queste differenze sono così marcate da far pensare che l’alleanza fra i due partiti diventerà in breve tempo molto conflittuale. Il Movimento 5 Stelle non è un oggetto misterioso. Chi conosce la storia del populismo latinoamericano non ha particolari difficoltà a inquadrarlo. Si tratta della variante italiana di un fenomeno che in America Latina si è riproposto in varie epoche e con varie denominazioni: peronismo, aprismo, varghismo, chavismo, eccetera.
Le componenti sono sempre le stesse: un caudillo, un nemico ufficiale (sul piano interno: l’oligarchia, le élites; sul piano internazionale: i gringos, gli Stati Uniti), l’ostilità di principio alla democrazia liberale e all’economia di mercato, un piano di drastica ridistribuzione di risorse dalla classe media ai campesinos e, più in generale, ai poveri comunque identificati.
È futile discettare sul fatto se i 5Stelle siano di destra o di sinistra. Non sono né l’una né l’altra cosa (oppure — il che è esattamente lo stesso — sono tutte e due le cose insieme). Come i loro parenti latinoamericani, hanno proprietà camaleontiche: ferme restando le caratteristiche sopra indicate possono adottare con disinvoltura, a seconda delle circostanze, politiche che gli osservatori giudicheranno «di destra» oppure «di sinistra».
Si capisce perché i 5Stelle si siano sempre più caratterizzati come un partito della ribellione meridionale, perché si siano meridionalizzati dal punto di vista elettorale. La ragione è che nel Mezzogiorno gli anticorpi contro il populismo in salsa latinoamericana sono più deboli che al Nord.
Si capisce anche quale sia il senso del sovranismo in variante 5Stelle. Per loro, uscire dall’euro, se mai fosse possibile, significherebbe avere la possibilità di «stampare moneta», essere in grado di facilitare, tramite la spesa pubblica, un massiccio trasferimento di risorse dal Nord al Sud e dalle classi medio-alte alle loro potenziali clientele. L’economia del Paese sprofonderebbe, certamente. Ma per questo tipo di movimenti tale prospettiva non è particolarmente preoccupante. Come mostra la storia latinoamericana (dai peronisti ai chavisti), basta avere agganciato saldamente il «popolo», basta avere costruito un’ampia clientela, e non si verrà cacciati dalle stanze del potere nemmeno dopo avere provocato una débâcle economica generale.
Veniamo ora al caso della Lega. Sulle affinità con i 5Stelle si è già detto. Ma ci sono anche le differenze. La principale delle quali ha a che fare con il diverso insediamento sia territoriale che sociale dei due partiti. Così come i 5Stelle , pur meridionalizzandosi, raccolgono consensi al Nord, la Lega — trasformata da Salvini in un movimento nazionale — ha visto crescere il proprio peso al Sud. Ma resta che i suoi punti di forza non sono lì. Come è stato spesso osservato, le due proposte-simbolo della flat tax (leghisti ) e del reddito di cittadinanza (5Stelle) confermano la vocazione, rispettivamente, «nordista» degli uni e «sudista» degli altri.
Quali sono le motivazioni principali del voto alla Lega? Sembra lecito riassumerle con due parole: tasse e immigrazione. Chi vota per la lega, per lo più, vuole meno tasse oppure meno immigrati oppure tutte e due le cose insieme.
Certamente nella Lega ci sono state (prima di Salvini) e ci sono tuttora più «anime». Ne alimentano il consenso non solo la rivolta fiscale e l’opposizione a una politica dell’immigrazione che chi vota per la Lega considera lassista e dannosa per gli italiani ma anche, in certe componenti (quelle popolane, con più basso livello di istruzione), l’ostilità, alimentata dal mito della «piccola patria», dalla nostalgia per le antiche comunità, alla società aperta: sono componenti che chiedono frontiere chiuse non solo agli immigrati ma anche all’Europa. A queste diverse anime corrisponde un elettorato composito, socialmente eterogeneo. È certo però che una parte non facilmente quantificabile ma sicuramente non piccola dell’elettorato leghista del Nord è composta da settori di classe media (imprenditori, artigiani, commercianti, professionisti) che vogliono sì meno tasse e una diversa politica dell’immigrazione ma che avrebbero da perdere tantissimo — tanto quanto buona parte del resto del Paese — se Salvini desse seguito agli sbandierati propositi anti- europei. Come ha scritto Dario Di Vico (Corriere, 29 maggio), c’è un ampio mondo imprenditoriale lombardo , per esempio nel Varesotto, che vota più o meno compatto per la Lega ma che non può approvare una scelta anti-europea: un mondo che ha un vitale interesse nella permanenza dell’Italia nell’euro.
Ciò significa che Salvini deve barcamenarsi fra due esigenze: tenere conto delle richieste di quella parte del suo elettorato che è spaventata dall’economia globalizzata ma anche non esagerare, non farsi prendere la mano da impulsi che potrebbero metterlo in rotta di collisione con altre parti dello stesso elettorato. Contratto o non contratto, Savona o non Savona, al molto che unisce 5Stelle e Lega va aggiunto il molto che li divide. Forse troveranno il modo di far convivere, con reciproca soddisfazione, le diversissime esigenze dei loro diversissimi elettorati. Forse, invece, cominceranno presto a darsele di santa ragione.
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