Prima promessa a rischio. Verso l’aumento dell’Iva
Troppi suggeritori pesanti, di quelli difficili da ignorare; conti che non quadrano nemmeno dando credito agli scenari più ottimistici.
Infine la convinzione che aumentare l’Iva sia in fondo come estrarre un dente malato: un po’ di dolore all’inizio, ma poi non ci si pensa più.
Poco importa che una manciata di giorni prima del giuramento, gli attuali ministri abbiano promesso il contrario. Sono tanti i motivi per i quali lo schema proposto dal neo ministro dell’Economia in via del tutto teorica quando non era nemmeno nella rosa dei papabili, potrebbe diventare realtà: aumentare l’imposta sui beni e consumi e finanziare la flat tax.
Vero che il contratto di governo siglato da M5s e Lega dice il contrario. I due partiti di maggioranza hanno preso l’impegno a non fare entrare in vigore le clausole di salvaguardia che prevedono l’aumento dell’Iva nel 2019, con le aliquote che dovrebbero passare rispettivamente dal 10% all’11,5% e dal 22% al 24,2%. Rispondendo alle pressioni degli addetti al settore, dei commercianti e dei consumatori, i leader gialloverdi hanno assicurato che non lo permetteranno. Ma quando si va al governo le cose cambiano.
Intanto, il neoministro dell’Economia ha un’idea precisa. Solo pochi giorni fa Giovanni Tria spiegava che la flat tax è una scelta giusta. Che per tamponare la mancanza di gettito, all’inizio si può partire da una o più aliquote più alte rispetto a quelle previste dai programmi (15% fino a 50mila euro, 20% oltre). Ma che per il resto si deve finanziare la riforma fiscale con l’aumento dell’Iva. «Si tratta di una scelta di policy sostenuta da molto tempo anche dalle raccomandazioni europee e dell’Ocse». Pensiero chiarissimo.
In realtà non c’è solo l’Ocse a raccomandare l’aumento dell’Iva. La Commissione europea, oltre al ritorno delle tasse sulla prima casa e quindi un’altra patrimoniale sostiene l’aumento dell’imposta sui beni e servizi. L’Fmi è sulla stessa linea. Anche in patria il partito dell’Iva gonfiata inizia a uscire allo scoperto.
Alle ultime considerazioni finali, anche il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha detto che bisogna spostare la pressione dai redditi da lavoro a «imposte meno distorsive». Chiarissima allusione all’Iva. Il fatto che non sia citata chiaramente fa capire l’importanza della posta in gioco.
Ieri lo stesso Tria non ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano se aumenterà l’Iva. Altro indizio poco rassicurante per famiglie e aziende che non vogliono essere stangate.
Nessuno crede che quando in ottobre ci sarà da stilare la Legge di Bilancio, i conti possano tornare. Disinnescare le clausole di salvaguardia costa 12,5 miliardi. Correggere il deficit come richiesto da Bruxelles altri 15. Attuare, anche solo in parte, il contratto gialloverde significa a questo punto fare saltare il banco.
E qui subentra la possibile molla politica che potrebbe fare spergiurare la neo maggioranza. Rinunciare a proposte di bandiera come la flat tax o a un abbozzo di reddito di cittadinanza solo per tamponare una cattiva eredità del passato non è una buona scelta. Pessimo effetto sull’elettorato, nessun consenso in più. Con la prospettiva di ritrovarsi l’anno successivo con lo stesso problema (15 miliardi da trovare per rinviare la solita stangata Iva).
Cosa intenda fare il governo si scoprirà presto. Ora che il Giuseppe Conte ha giurato, il Parlamento può mettere in agenda la votazione della risoluzione al Def, il documento di economia e finanza stilato dall’ex ministro Padoan. Che prevede l’aumento. Solo se Lega e M5s raccomanderanno chiaramente all’esecutivo di disinnescare l’aumento, la maggioranza avrà onorato un pezzetto di contratto.
IL GIORNALE