Dalla piazza ai giardini del Quirinale
All’ora del tramonto, sul colle più suggestivo di Roma, arrivano i “barbari”. Giardini del Quirinale, ricevimento per la festa della Repubblica, da sempre, il set del potere vecchio e nuovo, che si contamina, in un rito uguale a se stesso. Matteo Salvini, con l’abito del giuramento, incrocia Lino Banfi, il nonno d’Italia che tanto piaceva alla signora Franca Ciampi, così nazionale e popolare: “Avete applicato la bizona e il modulo 5-5-5”, scherza l’attore, ripetendo la celebre battuta del film “L’allenatore del pallone”. Gli stringe la mano il neo ministro dell’interno: “Grandissimo”. Al terzo passo sul prato solcato dai camerieri che offrono prosecchi e tartine, è già circondato da gente che si presenta con tanto di biglietto da visita. Pochi passi più in là c’è Luigi Di Maio, circondato da giornalisti. Strette di mano, con grande attenzione ai volti tv, sorrisi, postura da politico consumato. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha già meno riflettori che lo inseguono.
È il giorno del giuramento, del governo, della retorica della Terza Repubblica, col fragoroso applauso dei militanti nel pomeriggio quando i nuovi ministri escono dal Quirinale, simbolo fino a pochi fa di un potere da processare, in una piazza convocata per il due giugno contro il capo dello Stato. E invece Giovanni Tria, il neo ministro dell’Economia che non mette in discussione l’uscita dall’euro è forse il più disinvolto al giuramento, con la nonchalance del vecchio socialista che ha collaborato con Cicchitto e Brunetta e, prima ancora, economista cresciuto nell’era del potente De Michelis. Enzo Moavero, il montiano di ferro e Paolo Savona, il teorico del piano B, sono seduti vicini, e ostentano grande cordialità, come se già fosse scattata l’amalgama tra l’acqua santa e il diavolo.
È il giorno dell’emozione del potere che avvolge, del fascino delle telecamere all’uscita, in un clima di confusione propria dei cambi d’epoca, come non si vedeva nel ’94. Dell’irritualità dell’applauso dei parenti dei ministri a giuramento terminato. Baldanzosi i leghisti, come la postura di Matteo Salvini che durante il giuramento sembra Gattuso sulla panchina del Milan, busto proteso in avanti, gomiti poggiati sulle ginocchia, calzini a righe orrendi quasi come la cravatta verde sull’abito che ha un punto di blu poco scuro. Così baldanzoso che, dopo aver stretto la mano al capo dello Stato dopo il giuramento quasi si dimentica di stringere la mano al premier. E torna indietro. Rigido, più composti, a tratti impacciati, i pentastellati. Luigi Di Maio ha un tono di voce meno stentoreo. Alfonso Bonafede, neo ministro della Giustizia, pronuncia la formula di rito con voce quasi spezzata. E nell’emozione cadono nell’oblio le accuse di questi giorni sul golpe subito e sulla Carta violata.
La cosiddetta Terza Repubblica è un’ibridazione in fieri, fatta ancora di timidezze, di irritualità, di un interregno tra uno stile barbarico che non c’è più e una ritualità che non c’è ancora. Ai giardini del Quirinale quella vecchia volpe di Carlo Freccero scatta la fotografia di giornata: “Guarda, l’ibridazione tra vecchio e nuovo ancora non c’è. I grillini sono pochi, stanno in disparte, ci sono, non tantissimi, ma non parlano col vecchio establishment. Forse è il segno che i barbari sono ancora barbari”. Sorride, al suo fianco il professor Alessandro Campi: “Evidentemente non ci hanno messo tre mesi a capire come funziona Roma, come la Lega”. Ancora. Il neo ministro Toninelli si aggira da solo, prima di afferrare un succo di arancia. La Lezzi, la più elegante in giacca bianca su pantalone nero, parla con scarsa confidenzialità, come se stesse sempre davanti a un microfono acceso e per una decina di minuti improvvisa una specie di conferenza sulla Tap a Bruno Vespa e ad altri giornalisti. Più disinvolto il leghista Centinaio, rilassato e sorridente: “Noi ce l’abbiamo messa tutta. Ieri quando Matteo ci ha detto ‘è fatta’, ci è calata di botto tutta la tensione”.
Tutt’attorno c’è Roma. La Roma dei salotti, televisivi e non, abituata a raccontare e avvolgere Cesari e Papi, delle cerimonie e del trasversalismo, di Gianni Letta che parla fitto con Gentiloni, Malagò che stringe mani, Francesco Rutelli che stringe mani come una volta. In una festa, però – e non è un dettaglio – dove mancano i protagonisti delle ultime stagioni: Renzi, Berlusconi, gli ex Pci come D’Alema, i grandi protagonisti sella stagione ulivista, sempre presenti il giorno della cerimonia per la festa della Repubblica. Anche questo, un segno di una transizione e di una morfologia incompiuta di un potere ancora informe, tra chi si sente espulso dal Palazzo d’Inverno e chi comunque ci è entrato. Il vecchio Ciriaco De Mita, che di feste e di Repubbliche ne ha viste parecchie, ci affida una pillola di saggezza, dopo uno sguardo sul Colle più bello di Roma: “Si oscilla tra un presente che non c’è e un futuro che nessuno indica”. Alle otto di sera il sole è tramontato.
This entry was posted on sabato, Giugno 2nd, 2018 at 09:38 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.