Minniti: «Non possiamo diventare l’Ungheria del Mediterraneo»
Minniti, come si sente da ex ministro?
«Liberato da una contraddizione: essere vincolato agli affari correnti, in un ministero dove non esistono affari correnti. Il terrorismo e il controllo dei flussi migratori non sono affari correnti».
Come definirebbe il nuovo governo?
«Il governo dell’ignoto. Il contratto, le dinamiche di costruzione della squadra, il profilo politico: tutto dà l’idea di un vuoto davanti a noi. In 48 ore si è passati dalla richiesta di messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica alle strette di mano: lo stesso fatto che domenica era un attentato alla Costituzione martedì è diventato un consiglio saggio da seguire. La verità è che siamo a uno spartiacque della vita repubblicana».
La Terza Repubblica?
«Ho perso il conto delle Repubbliche. No, siamo in una fase senza precedenti, che il presidente Mattarella ha condotto in modo impeccabile. Era giusto assecondare fin quasi oltre ogni limite la possibilità che nascesse un governo politico. Non perché ne sottovaluti la pericolosità; perché è importante che nel rapporto con il Paese nessuno possa agitare il tema della vittoria elettorale mutilata. Ora il tempo della propaganda è finito. Comincia il tempo della responsabilità».
Di Maio e Salvini sono in grado?
«Mi colpisce l’assoluta mancanza di limite alla minaccia, e nello stesso tempo l’assoluta mancanza di limite alla capacità di accettare compromessi. La mancanza di limite nel rapporto con la cosa pubblica. Non è solo disinvoltura individuale, è incapacità di capire che in democrazia le forme e le procedure sono sostanza; mentre vengono viste o come uno strumento, o come un impedimento. Qui c’è la forzatura».
Quale forzatura?
«Se Salvini e Di Maio si incontrano, decidono il rilancio dell’alleanza e la composizione della squadra, il premier arriva a incontro finito e serve solo per comunicare al capo dello Stato che c’è il governo, allora qui si delinea un punto delicato: il ruolo del presidente del Consiglio. Se il primo atto è un accordo tra capi partito, non c’è nessun cambiamento; c’è il ritorno ad antiche pratiche da pentapartito. Un pentapartito populista».
Sono i movimenti che hanno vinto le elezioni.
«Certo. La democrazia non si discute. Al messaggio di un amico europeo che esprimeva preoccupazione ho risposto: “Right or wrong, my country”; giusto o sbagliato, è il mio Paese. Ma fa parte della democrazia anche la possibilità di contrapporre la propria visione. Se prometti 50 o forse 100 miliardi di spesa, allora rischi di aver costruito un gigante delle aspettative, con i piedi drammaticamente di argilla. Senza considerare lo slittamento progressivo della collocazione internazionale del nostro Paese. E non penso solo all’euro».
Pensa ai rapporti con la Nato e la Russia?
«Penso innanzitutto all’idea di società, in contrasto con quella tradizionale che definisce la società italiana. Il pentapartito populista ha un’idea della società chiusa. Chiusa nella dimensione virtuale: il sacro blog. Chiusa nella dimensione fisica: l’idea del confine come separazione dagli altri, anche a livello internazionale. La nostra identità contro quella altrui, il nostro gruppo contro un altro gruppo. Tutto questo può portare allo slittamento di valori e di funzione del nostro Paese. Una separazione non tanto dai riti barocchi di Bruxelles, che non piacciono neanche a me, ma dai valori fondamentali che ci legano all’Europa e ai nostri alleati storici».
Una separazione che ci avvicina a Putin?
«L’Italia ha sempre coltivato il dialogo tra Est e Ovest, ma non è mai stata un Paese dell’Est al confine con l’Ovest. Non possiamo diventare un’Ungheria al centro del Mediterraneo».
E la sinistra che fa? Mangia i pop-corn?
«La sinistra deve contrastare tutto questo, evitando di cadere in due riflessi condizionati. Fare i vedovi del governo: a ogni dato positivo, rievocare quel che avevamo fatto noi; la trappola della nostalgia. E pensare che il ritorno all’opposizione consenta in modo automatico di recuperare il consenso perduto. Come nel ’94, quando pensammo che in poco tempo avremmo costruito la sconfitta di Berlusconi».
Che in effetti fu battuto nel 1996.
«C’ero. Feci le liste. Tutto fu studiato alla perfezione: la desistenza con Rifondazione, la Lega da sola, Rinnovamento italiano al 4%, i collegi marginali… Così una minoranza nel Paese divenne maggioranza di governo. Ma per la sconfitta politica di Berlusconi abbiamo dovuto attendere 24 anni. E non l’abbiamo sconfitto noi, ma Salvini».
Quanto ha sbagliato Renzi, e cosa dovrebbe fare ora?
«Renzi ha commesso errori, e credo ne sia consapevole. Ora è di fronte a un bivio. Un leader può anche cadere, e nel tempo può anche rialzarsi. Un capo corrente è più difficile che cada, ma se cade non si rialza. Sopravvive. Liberiamoci però dall’idea che le colpe siano sempre dell’altro. Avverto sulla mia pelle la responsabilità della sconfitta. La sinistra ha vissuto una rottura sentimentale nel rapporto con il Paese».
Cosa intende?
«Abbiamo affrontato la rabbia e la paura con la supponenza e la freddezza delle cifre. Che erano vere: non abbiamo mai avuto tanti occupati; i reati sono al minimo storico da vent’anni. Ma non abbiamo dato dignità a questi sentimenti. Non siamo riusciti a connettere la rabbia con un progetto, né a rimuovere le cause della paura».
Ora il Pd deve spostarsi a sinistra?
«Il Pd dev’essere il perno di uno schieramento più ampio, capace di costruire un progetto comune per una società aperta, di trovare un punto di incontro tra quelle che in filosofia si chiamano coppie opposizionali: umanità e sicurezza; riformismo e questione sociale; Europa e interesse nazionale. Per i populisti, gli elementi della coppia si escludono: o prendi uno, o prendi l’altro. Per Salvini, o scegli l’umanità, o scegli la sicurezza. La nostra sfida è stata ed è tenere insieme umanità e sicurezza».
Salvini sarà un buon ministro dell’Interno?
«Questo lo giudicheranno gli elettori. Ho visto una sua foto accanto a una ruspa. Già per un leader che ha vinto è un’immagine un po’ forte. Vedere un ministro dell’Interno fotografato accanto a una ruspa non mi pare un segnale rassicurante».
Salvini promette i respingimenti. Sono tecnicamente possibili?
«E come si fa? I flussi migratori non si possono cancellare; si possono governare. È quel che abbiamo fatto. Siamo all’undicesimo mese consecutivo di riduzione degli arrivi. Rispetto al primo luglio del 2017 sono arrivati 122 mila migranti in meno».
L’altra promessa di Salvini sono i rimpatri di massa. Sono tecnicamente possibili?
«Furono un punto dirimente della campagna elettorale del centrodestra nel 2001. Finì con la più grande sanatoria della storia: circa 600 mila clandestini divennero regolari. Più o meno lo stesso numero delle persone che ora si vorrebbero espellere».
Finirà così anche stavolta?
«Non dico questo. Dico che nessuna espulsione è possibile senza una rete di rapporti internazionali. Affinché ci sia un Paese che espelle, ci dev’essere un Paese che riaccoglie. Questa rete di rapporti esiste. Abbiamo costruito un modello affrontando la questione sull’altra sponda del Mediterraneo. Abbiamo fatto 25 mila rimpatri volontari assistiti grazie alla collaborazione con la Libia e con le organizzazioni umanitarie dell’Onu, che prima in Libia non c’erano e ora ci sono. La frontiera più importante è quella meridionale della Libia. È fondamentale il rapporto con i Paesi nordafricani e centrafricani, anche per fermare i foreign fighters dell’Isis che tentano di tornare a casa. Ma se offendi quei Paesi e i loro cittadini, se fai saltare la rete, se pensi di riportare tutto quanto in Italia, rischi l’eterogenesi dei fini: pensi di migliorare una cosa, e la peggiori».
Il Pd doveva trattare con i 5 stelle? Deve farlo in futuro?
«Un confronto alla luce del sole non era un’eresia. Non perché bisognasse fare un accordo. Per rendere evidente che, sul terreno della sfida di un progetto ampio per il Paese, una grande formazione democratica come la nostra non si tira indietro. Detto questo, c’è stato un flusso di nostri elettori verso i 5 Stelle; ma i 5 Stelle non sono una costola della sinistra».
Il Pd ha bisogno di un nuovo segretario? Chi? Lei si candiderà?
«No. Mi sento un predicatore disarmato, e tale voglio rimanere. Non ho parlamentari, non ho una corrente. Sono soltanto uno che può stimolare una discussione vera, dura. Ho un limite costitutivo: pur essendo una persona dalle fermissime convinzioni, e forse un po’ lo si è notato, sono portato istintivamente a tenere conto del pensiero degli altri. E questo non mi rende adatto allo spirito del tempo».
Ultima cosa. Ogni tanto si diffonde la voce di un allarme attentati. Quant’è alto oggi?
«È sostanzialmente stabile, nel livello alto di allerta. La componente militare dell’Isis è stata fisicamente neutralizzata; ma la sua componente terroristica è alla ricerca di rilancio. I pericoli sono due. I foreign fighters che tornano a casa dall’Iraq e dalla Siria. E i lupi solitari. La rete dell’Isis è talmente vasta e profonda che neppure l’Isis la conosce; tutto passa dal web. In questi anni non abbiamo subìto attacchi, e abbiamo avuto il record di presenze di turisti stranieri. Abbiamo garantito la sicurezza della società senza chiuderla. L’idea della sicurezza e del governo dei flussi è un patrimonio dell’Italia. Sarebbe un errore grave disperderlo».
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