Busia, il super-burocrate anti trasparenza scelto dal governo della trasparenza
Per garantire trasparenza al governo della trasparenza il ruolo chiave di Segretario generale a Palazzo Chigi sarà affidato, salvo contrordini, a Giuseppe Busia. Cioè al dirigente considerato a torto o a ragione capofila dei colleghi ostili alla trasparenza sui beni dei dirigenti. Il tormentone, smistato alla Corte costituzionale, si trascina da anni. Nella scia della scelta di Mario Monti di dichiarare con tutti i suoi ministri non solo i redditi ma anche le proprietà personali, il professore e Paola Severino decisero, con la legge che porta il nome dell’allora Guardasigilli, di allargare la massima trasparenza anche ai «titolari di incarichi dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni». Tesi ribadita nel «Decreto Trasparenza» del marzo 2013.
Una decisione imposta dallo sconcerto della pubblica opinione davanti a vecchie e nuove inchieste giudiziarie che avevano visto il coinvolgimento di burocrati ad alto e altissimo livello, dal direttore generale del servizio farmaceutico nazionale Duilio Poggiolini (al quale erano stati da poco confiscati oltre 31 milioni di euro) fino ad Angelo Balducci, il «dominus» dei lavori pubblici fino al momento dell’arresto, delle condanne e delle confische di beni (27 tra ville, appartamenti di pregio e terreni più quote societarie e altro ancora in Lussemburgo) per oltre 9 milioni.
Magari, a saperlo prima quanto si erano arricchiti… Certo, spiega Mario Monti, «il sistema poteva pure non essere perfetto e delle perplessità ci furono anche tra noi, ma una pubblica radiografia delle proprietà ci sembrò l’unico elemento disponibile per cercare di arginare la corruzione». Accolta da malumori silenti e dichiarati, confermata da Letta e da Renzi, la decisione arriva infine in porto col «Decreto Trasparenza» firmato da Marianna Madia il 25 maggio 2016. Mancano soltanto, come qualche lettore ricorderà, le linee guida affidate all’Autorità anticorruzione. Mentre gli uffici di Raffaele Cantone sono al lavoro per definire le nuove regole, tra i burocrati toccati dalla legge montano dubbi, mal di pancia e reazioni: «Occorre fare ricorso al Tar del Lazio».
Ma sulla base di cosa, se non c’è una carta sulle «linee guida» contro cui ricorrere? Tra novembre e dicembre di quel 2016, però, la carta arriva: è l’invito ai funzionari e dirigenti, da parte del segretario generale del Garante privacy, a preparare tutti i documenti necessari per esaudire le richieste che prima o poi arriveranno dall’Anac. Un’accelerazione mai vista nella storia d’una burocrazia sventuratamente nota per i biblici ritardi e non certo per la rapidità. In questo caso, poi! Perfino in anticipo! Detto fatto, con quella carta intestata alla Privacy, letta nei dintorni di Cantone come una raffinata furberia, un gruppo sempre più folto di dirigenti può finalmente ricorrere al Tar. Lamentando l’«ingerenza» nella «sfera personale degli interessati» e l’«irragionevole» equiparazione ai politici. E poi, se la trasparenza è un’arma contro la corruzione perché non obbligare anche gli impiegati a dichiarare cosa possiedono? Insomma: «O tutti o nessuno». I giudici, sensibili ai temi cari ai burocrati per l’incessante e storico andirivieni di magistrati tra gli incarichi di governo e i rientri nei ranghi della giustizia civile, si muovono. E il 2 marzo del 2017 prendono in contropiede l’Anac che doveva dare le linee guida sei giorni dopo (coincidenza!) e decidono una sospensiva fino a ottobre. Che fretta ci sarà mai? Sono in arrivo le nuove elezioni? Eeeeh… Colta di sorpresa, l’Authority anticorruzione chiede al governo Gentiloni se intenda impugnare l’ordinanza del Tar che blocca tutto. Risposta in burocratese stretto: sentita l’avvocatura sul rischio di eventuali risarcimenti, è meglio «non rimuovere gli effetti della sospensiva concessa».
A fine settembre il Tar si pronuncia: deve decidere la Corte costituzionale. Chi aveva firmato quel documento gioiosamente colto al balzo dai dirigenti per dare battaglia? Il segretario generale del Garante privacy ora dato per certo come prossimo segretario generale a Palazzo Chigi, Giuseppe Busia. Il quale, letta sul Corriere la ricostruzione dei fatti, scrisse una lettera garbata e ironica per precisare che non era stato lui a muoversi maliziosamente in anticipo ma semmai l’Anticorruzione a essersi mossa in ritardo, di rinvio in rinvio. «Se poi si vuole discutere dell’obbligo di pubblicazione dei dati patrimoniali dei dirigenti sul web», precisava, «a titolo strettamente personale confesso di non condividerlo. Ma proprio per questo — socraticamente — devo essere il primo a rispettarlo, per essere poi libero di criticarlo. Credo infatti che, ai fini di anticorruzione, sia una misura inefficace, oltre che limitativa della sfera di riservatezza dei singoli. Se infatti qualcuno percepisce una tangente, ha mille modi per nasconderla…» Che tutto ciò possa avere un minimo peso sulla scelta del super-burocrate che affiancherà Conte è difficile. Nello stesso contratto di governo, per dire, la parola «trasparenza» che fu tra i miti fondanti del M5S e in tempi più lontani anche della Lega, appare 17 volte. Legata all’ambiente, alla banca per gli investimenti, al debito pubblico, all’immigrazione, alle fondazioni, al servizio sanitario, all’azzardo, alla Rai, al Made in Italy… Mai ai burocrati. Del resto mai nominati.
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