Corrotti, il copione si ripete

Tra le intercettazioni del costruttore Luca Parnasi che costituiscono l’ossatura della nuova inchiesta romana sulla corruzione, ce n’è una che per i magistrati inquirenti è una sorta di «confessione stragiudiziale»; la rappresentazione plastica del metodo lavorativo dell’imprenditore accusato di corruzione. «Ci sono le elezioni… Io spenderò qualche soldo sulle elezioni, che poi vedremo come vanno girati ufficialmente, coi partiti politici eccetera. Questo è importante perché in questo momento noi ci giochiamo una fetta di credibilità per il futuro. Ed è un investimento che io devo fare… molto moderato rispetto a quanto facevo in passato quando ho speso cifre che manco te lo racconto… però la sostanza è che la mia forza… è quella che alzo il telefono». Sono parole registrate il 9 gennaio 2018, all’inizio della campagna elettorale, quasi perfettamente sovrapponibili a quelle intercettate cinque anni prima — il 20 aprile 2013, alla vigilia delle elezioni comunali a Roma — durante il colloquio di un altro imprenditore, di diverso livello ma ugualmente importante: «Tu devi essere bravo perché la cooperativa campa di politica. Finanzio giornali, eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti… Questo è il momento che paghi di più perché ci stanno le elezioni comunali, poi per cinque anni… mentre i miei non li paghi più, poi quell’altri li paghi a percentuale su quello che fanno … Mo’ c’ho quattro cavalli che corrono… col Pd, con il Pdl ce ne ho tre, e con Marchini c’è…». A parlare era Salvatore Buzzi, il capo delle cooperative condannato a 19 anni di reclusione in primo grado per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione; lo stesso reato per cui è stato arrestato Parnasi.

A cinque anni di distanza, la situazione non sembra cambiata di molto. Con un elemento in più: la scoperta del «mondo di mezzo» di Buzzi e del suo complice Carminati ha di fatto determinato il cambio di Giunta a Roma, ma adesso il metodo corruttivo contestato a Parnasi investe in qualche modo anche la nuova amministrazione capitolina targata Cinque Stelle. Che proprio dello svelamento del «metodo Buzzi» si era giovata per conquistare il Campidoglio.

Data per scontata la presunzione di innocenza degli indagati e l’avvertenza che siamo di fronte solo a una ricostruzione dell’accusa, i magistrati ritengono di aver individuato un altro esempio di una prassi che non cambia a dispetto dei mutamenti politici e del ricambio degli interlocutori all’interno della pubblica amministrazione. Per il giudice che ha ordinato gli arresti siamo di fronte a un «ordinario e non certo eccezionale ricorso a condotte illecite», utilizzato come «strategia indispensabile per la realizzazione di qualsivoglia progetto»; secondo la Procura questa vicenda dimostra che «il metodo corruttivo verso esponenti istituzionali, appartenenti alla politica e alla burocrazia» s’è trasformato in «un significativo asset d’impresa». Se Buzzi aveva puntato su «cavalli» con le insegne di tutti i principali partiti, nell’indagine su Parnasi sono coinvolti a vario titolo esponenti del centrodestra, del centrosinistra e dei Cinque Stelle. In un’altra intercettazione del novembre scorso, riassunta nelle carte dell’accusa, l’imprenditore arrestato dice di voler «capitalizzare il super rapporto» instaurato con il Comune di Roma «nella direzione di altri progetti imprenditoriali/immobiliari» dopo quello dello stadio. E in una conversazione di marzo, quasi si rallegra che un articolo di giornale parla di suoi presunti finanziamenti alla Lega, visto che tutti lo consideravano più vicino a personaggi del Pd: «Invece io sono comunque uno che apre».

È l’immagine di un sistema in cui la trasversalità del malaffare è diventato un valore aggiunto. Gli eventuali processi diranno se tutto questo ha fondamento o si tratta di parole in libertà (come diceva nei suoi colloqui Buzzi), che non hanno valore penale. Tuttavia, al di là dell’esito dell’inchiesta, il mosaico composto finora dai pubblici ministeri fornisce un quadro allarmante. Perché se fosse vero, vorrebbe dire che anche i ricambi più radicali servono a poco. E che forse, ancora una volta, le burocrazie e le loro antiche abitudini hanno la meglio sui più ambiziosi programmi di rinnovamento. Probabilmente è proprio questo il cuore del problema che non si riesce a risolvere: la convinzione che la vecchia pratica delle «mazzette», seppure sotto forme che si rinnovano in continuazione anche per sfuggire ai controlli, sia l’unica via sicura per aggiudicarsi lavori e affari. Di qui i pagamenti a «mediatori nei confronti dei pubblici ufficiali», e a seguire la «promessa o dazione di denaro o altre utilità» agli esponenti politici con responsabilità amministrative. Gli inquirenti spiegano che in questa storia lecito e illecito si mescolano, annunciando nuovi sviluppi. Ma il fatto che l’indagine nasca da quella che ha portato alla sbarra il costruttore ottantenne Sergio Scarpellini, il quale ha spiegato di aver dato soldi all’ex capo del personale del Campidoglio Raffaele Marra «perché è uno che conta, mi piaceva avere un amico», la dice lunga sui metodi che si perpetuano nonostante indagini e processi.

CORRIERE.IT

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