Chi rassicura e chi preoccupa: due facce dello stesso governo

Sono passati solo quindici giorni dall’insediamento del governo. È naturale che esso sia nella fase dell’apprendimento. Va considerato che si tratta di una compagine interamente nuova, composta di forze politiche che fino a ieri non solo si erano opposte l’una all’altra, ma avevano duramente criticato governo, élite, casta, e si trovano ora a dover svolgere il ruolo di élite. Che solo due dei diciannove componenti dell’esecutivo avevano precedenti esperienze di governo. Che molti ministri e sottosegretari hanno alle loro spalle l’esperienza di una sola legislatura parlamentare.

Questo, tuttavia, non spiega interamente lo stile decisionale contraddittorio e la forte oscillazione – per indicare due dei punti opposti del pendolo – tra l’assennata posizione del ministro dell’economia e delle finanze e le bellicose decisioni del ministro dell’Interno. Se il primo rassicura, il secondo preoccupa.

Il primo non si è limitato, con una esternazione molto ben argomentata (intervista al Corriere del 10 giugno), a dare fiducia a chi ha investito i propri risparmi in titoli dello Stato, ma ha anche detto che sono determinanti gli investimenti pubblici; che le risorse ci sono, ma che occorre una «decisa eliminazione degli ostacoli alla esecuzione degli investimenti»; e che sta provvedendo a eliminare i «nodi amministrativi», per aumentare la «capacità tecnica delle amministrazioni». Analisi giusta e indirizzi sacrosanti.

Altro fattore rassicurante è costituito dalle prime scelte dei collaboratori amministrativi dei ministri. Si è preferito affidarsi a personale esperto, a conoscitori della macchina pubblica, anche chiudendo la parentesi renziana, durante la quale era stata manifestata per lo più sfiducia nei confronti dei consiglieri di Stato. A questo va aggiunto che vi è stata rispondenza nella macchina amministrativa, che ha assicurato la propria collaborazione. È un altro segnale rassicurante del processo di istituzionalizzazione di quelli che finora erano stati meri movimenti sociali (il M5S aveva persino rifiutato la denominazione di partito politico).

Al polo opposto stanno le scomposte dichiarazioni e decisioni del ministro dell’Interno, che ha fatto ricorso a un linguaggio guerresco («difendere le frontiere», come se fosse in atto un conflitto bellico) e a decisioni conseguenti («chiudere i porti»). Se il ministro dell’Interno si valesse delle molte ricerche compiute da numerosi centri di studio sul fenomeno migratorio, apprenderebbe che né accogliere, né respingere costituiscono oggi una soluzione destinata a durare. Da un lato, sul breve periodo, infatti, non si può ignorare che la percentuale di immigrati (regolari e irregolari), rapportata alla popolazione, è inferiore, in Italia, a quella degli altri Paesi europei. Dall’altro, le previsioni demografiche di medio-lungo periodo fanno capire che non basterà chiudere i porti per fermare le migrazioni dall’Africa. Non basta fare, quindi, dichiarazioni bellicose, bisogna avere un progetto di lungo periodo, sul quale cercare di raccogliere il consenso dei nostri «partner» europei.

Non è destinato a rassicurare un altro indirizzo di governo, quello dell’altro vicepresidente del Consiglio dei ministri, impegnato nella lotta alle delocalizzazioni: quale ministro dello sviluppo economico e del lavoro, egli intende revocare eventuali finanziamenti pubblici concessi a imprese che investano fuori d’Italia. Questo indirizzo può soddisfare un nazionalismo miope (ed anche il suo predecessore, che si era mosso nella stessa direzione), non certo le esigenze della nostra economia: che cosa succederebbe se i governi stranieri facessero altrettanto nei confronti delle loro molte imprese che investono in Italia? Non abbiamo detto tante volte che occorre creare un ambiente favorevole, che possa attrarre investimenti stranieri nel nostro Paese? All’Italia, Paese forte nelle esportazioni, convengono chiusure nazionalistiche?

Nel «contratto per il governo del cambiamento» (più che nelle linee programmatiche esposte in Parlamento dal presidente del Consiglio dei ministri), c’era una sottile linea rossa, quella che evocava la paura e il nazionalismo. Timore per una crescente criminalità e per la corruzione, videocamere nelle classi, maggiori fondi alle forze armate e dell’ordine, atteggiamento aggressivo verso l’Unione Europea. Instillare insicurezza, diffondere sfiducia nelle istituzioni, mostrare segni di insofferenza per le procedure della democrazia, per poi suggerire antidoti autoritari e semmai illiberali: questo è il pericolo che il nuovo governo deve evitare.

CORRIERE.IT

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