Il manager indagato ha procurato un tesoro al “partito Casaleggio”

Se Luca Lanzalone è diventato il Mr Wolf del Campidoglio, in pratica il sindaco ombra di una Capitale allo sbando, in cui la Raggi viene mandata solo alle serate di beneficienza, una ragione ci sarà.

In casa Cinque Stelle è partita la gara al rimpallo delle responsabilità, e il pasticciaccio brutto dello stadio diventa lo strumento di una sanguinosa guerra interna, da cui tracimano odî e rivalità tra i vari capibastone grillini. La sindaca (che nessuno tra loro considera tale) strilla che lei non c’entra niente e che hanno deciso tutto «loro». Roberta Lombardi, candidata trombata alla Regione punta dritto contro il governo: a portare Lanzalone a Roma è stato «il gruppo che gestiva gli enti locali», la «responsabilità politica» è loro. Ossia di Gigino Di Maio, vicepremier; Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia; Riccardo Fraccaro, ministro ai Rapporti con il Parlamento. L’architrave grillina dell’esecutivo, in pratica. Ma in verità, nelle gerarchie occulte e opache del Movimento, le responsabilità arrivano ben più in alto, su per li rami. Perché Lanzalone, che in pubblico diceva: «Grillo?

L’ho visto solo una volta, a teatro. Casaleggio? Non lo conosco», in privato aveva frequentazione ben più ravvicinate coi due boss del partito stellato. La sera prima di essere arrestato era a cena proprio con lo «sconosciuto» Casaleggio, al centro di Roma, per discutere di nomine e posti nel governo e nelle partecipate, Rai inclusa: un ricco bottino di poltrone su cui la srl di Milano intende avere voce decisiva in capitolo. Con la consulenza di Mr Wolf. Ma c’è di più: a Lanzalone e alle sue competenze tecnico-legali si deve l’ambiguo assetto interno del partito: «È stato lui – scrive Marco Canestrari, ex collaboratore di Casaleggio senior e autore del libro-denuncia Supernova – a scrivere il nuovo Statuto del Movimento Cinque Stelle e quindi a consegnare, di fatto, a Davide Casaleggio il potere negoziale e di condizionamento di cui gode nel Movimento; e, soprattutto, la possibilità di raccogliere dai parlamentari M5s, nell’arco della legislatura, quasi sei milioni di euro per la sua associazione privata, Rousseau».

E sotto il getto del ventilatore impazzito finisce anche il neo Guardasigilli Alfonso Bonafede. «Non commento le inchieste in corso», cerca di svicolare lui. Ma le voci interne additano proprio il ministro come colui che ha «presentato Lanzalone a Grillo», che lo ha portato a Livorno da Nogarin prima e a commissariare la Raggi a Roma poi. E il Pd lo sfida: «Il ministro della Giustizia non può convivere con queste macchie dice il presidente dei senatori dem Andrea Marcucci – meglio che venga subito in Aula a chiarire la sua posizione e le sue relazioni». E Roberto Giachetti chiede le dimissioni di Raggi: «Non per la vicenda giudiziaria, di cui si occuperanno i tribunali. Ma perché una Giunta di incompetenti, irresponsabili e incapaci ha fatto naufragare tra impicci e imbrogli un’opera pubblica che serviva alla città».

Il premier Conte, percependo la bufera, cerca di buttare la palla in tribuna: il problema non è Roma, dice, è «il caso corruzione in Italia». E per dimostrare di tenere sotto controllo la situazione, ieri era in prima fila con mezzo governo ad applaudire la relazione annuale dell’Anticorruzione di Cantone, la stessa che pochi giorni fa aveva bacchettato: «Non ha funzionato», salvo poi dover ricucire.

IL GIORNALE

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