Conte, Matteo e in mezzo Di Maio affoga
Quella frase dal sen fuggita sul collega vicepremier, Luigi Di Maio, uscita dalla bocca di Matteo Salvini, senza acrimonia o soddisfazione, consegnata ad uno dei suoi collaboratori ombra, l’ha carpita l’altro giorno un senatore leghista: «Fa tenerezza…».
In fondo sarebbe quasi un moto d’affetto, se il leader leghista non constatasse, nei fatti, le difficoltà del suo dirimpettaio nel vertice del governo, a stargli dietro nella capacità di catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica. Appunto, si tratta di una constatazione visto che anche Vincenzo Scotti, indimenticabile ministro della Dc e ora coach di molti ministri grillini con la sua Link Campus University, che è tornato a fare capolino ieri pomeriggio al Senato dopo vent’anni, sul tema dell’insostenibile leggerezza dell’essere Di Maio, per dirla con il romanzo di Milan Kundera, ha allargato le braccia: «Se posso aiutarlo? Non è il mio mestiere!».
A vedere queste prime settimane di governo l’impresa di «aiutare» Giggino è davvero ardua. Se non impossibile. Il «caso Di Maio» c’è, al netto della faziosità degli avversari, della competizione degli alleati, della gelosia dei compagni di Movimento: il leader Cinque stelle non è all’altezza della competizione con Salvini, non per le manie di protagonismo del leghista o per la sua vocazione ad interpretare il ruolo di «maschio alfa» nel governo, ma perché manca di suo o, forse, ha richiesto troppo a se stesso. «Al posto di Di Maio osserva un po’ sconfortato il grillino Matteo Dell’Osso, uno dei passionari del movimento c’è un buco. E l’assenza di un competitor nel tempo potrebbe far venire a Salvini la voglia di andare al voto». Una paura, un timore, uno stato d’animo su cui Gianluigi Paragone, con onestà intellettuale, innesca un ragionamento. «Di Maio sostiene l’ex conduttore tv, già gran conoscitore del Carroccio e ora senatore M5s è affogato… affogato… Voleva fare il premier e, non essendoci riuscito, si è voluto addossare troppi incarichi: il ministero dello Sviluppo economico, il Welfare, le Telecomunicazioni, il ruolo di capo partito. Salvini corre e lui fatica, appesantito com’è, a stargli dietro. Sarebbe stato molto meglio se avesse fatto il vicepremier e il ministro degli Esteri. Gliel’ho detto, ma ora è anche difficile parlargli. La questione è uno dei problemi del movimento».
Già, Di Maio rischia di trasformarsi da risorsa in «problema». E la prova la trovi nei sondaggi che fotografano il gradimento dei leader: l’ultimo Ixè dà la palma d’oro al premier Conte, poi Salvini, quindi Gentiloni e solo al quarto posto Di Maio. Insomma, Giggino non ha il profilo né del politico prudente, capace di mediare come l’attuale presidente del Consiglio o il suo predecessore, ma neppure del front man come il leader della Lega, cioè il tipico populista. Nei fatti, da quando è arrivato al governo è un personaggio in cerca d’autore. Tant’è che i suoi fan si rifugiano in un atto di fede per il futuro. «Luigi lo consola Gianluca Castaldi, senatore abruzzese dei Cinque stelle si è preso una brutta gatta da pelare. Comunque penso che abbia due-tre colpi in canna». «Alla fine si farà» gli fa eco il sottosegretario grillino, Angelo Tofalo, «ma è strano che abbia avuto questa crisi diventando ministro». Ma la «fede» non ha nulla a che vedere con la politica. E il paragone con Salvini in queste prime due settimane di governo, è davvero impietoso. Per comprendere le dimensioni di questa disfatta, basta una breve cronaca. Il vicepremier leghista apre un contenzioso con mezza Europa sull’immigrazione. «Una pagina che ricorda – ammette il grillino Primo Di Nicola il miglior Craxi, il Craxi che dice no agli americani a Sigonella». E Di Maio resta muto. E ancora. Salvini propone il censimento dei rom, interpretando il mood del Paese. Il vicepremier grillino non trova di meglio da proporre il censimento dei raccomandati in Rai: una mezza menata perché allora tanto varrebbe chiudere l’azienda di viale Mazzini. «La risposta isterica e stridula a Salvini ironizza il piddino Michele Anzaldi di uno che perde terreno». E di nuovo: il leader del Carroccio propone di «chiudere» tutte le cartelle Equitalia sotto i 100mila euro; Di Maio si occupa dei riders, cioè dei fattorini, propone un tavolo sul tema ma le multinazionali minacciano di lasciare il Paese. E il colmo è un rider che scrive all’organo ufficiale grillino, Il Fatto, per dirgli di lasciar perdere. «Mia madre ironizza l’azzurro Enrico Costa conosce i rom, ma se le parli di riders cade dalle nuvole. La verità è che Di Maio si muove fuori spartito o, forse, sta abdicando in favore di Conte dal ruolo di uomo immagine del movimento».
La congettura, a prima vista, può apparire esagerata, ma in realtà discende dal fatto che mentre Di Maio soccombe sempre nello scontro mediatico con Salvini, nel campo grillino c’è qualcuno che qualche partita la vince. Il capo del governo, Conte, ad esempio, triangolando con il Quirinale, è riuscito a vincere il braccio di ferro con il potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il leghista Giorgetti, sulla nomina del nuovo segretario generale di Palazzo Chigi: in quella poltrona siederà Roberto Chieppa, prelevato dal consiglio di Stato come il premier. Mentre il presidente della Camera, Roberto Fico, leader della sinistra del movimento, oltre a polemizzare con il vicepremier leghista sull’immigrazione, ha bloccato l’ipotesi salviniana di dare il Copasir a Fratelli d’Italia, aprendo la strada ad un piddino, Lorenzo Guerini. Conquistando la gratitudine del Pd. «A noi daranno commenta con una punta di ironia, Guido Crosetto, uomo della Meloni la presidenza di una giunta parlamentare, che non si rifiuta a nessuno».
Di Maio, invece, è finito sotto i riflettori dello scandalo dello stadio della Roma per la scelta di Luca Lanzalone. Magari pure commettendo qualche sbaglio. «Ho letto che su Lanzalone Di Maio ha dichiarato che hanno sbagliato avvocato», commenta Franco Vazio, un piddino esperto di Palazzo di Giustizia: «È un errore sparare su un uomo in carcere. Mi ricorda Mario Chiesa: Craxi lo definì un mariuolo mentre era a San Vittore; lui parlò e cominciò Tangentopoli».
Eh sì, alla fine, magari per insipienza, i grillini stanno conoscendo l’altro Potere, quello forte, che c’è in Italia: la magistratura. E i risultati già si vedono. Il ministro della Giustizia Bonafede, una controfigura di Di Maio, convocato nei giorni scorsi in Procura (non ci sono precedenti del genere), ha già fatto sapere che cambierà la legge sulle intercettazioni. «Toglierà ai magistrati prevede il numero uno sulla giustizia del Pd, Davide Ermini la responsabilità dell’archivio: proprio ciò che vuole il partito dei pm, che non vuole problemi, vedi caso Woodcock». Ma, soprattutto, ha indicato al vertice del Dap il pm Francesco Basentini. Famoso per l’inchiesta sul petrolio che fece dimettere il ministro Federica Guidi e che si rivelò alla fine un buco nell’acqua. Sempre nello stile Woodcock.
IL GIORNALE