Il dominio del «capitano» leghista e la debole resistenza dei 5 stelle

I leghisti vengono da Marte, i Cinquestelle da Venere. Per comprendere il dominio di Salvini, quasi un premier ombra se non ce ne fosse già uno, e per spiegare la debole resistenza di Di Maio, si può forse usare la metafora che Robert Kagan applicò agli americani e agli europei dopo l’11 settembre: i primi sono i discendenti del dio della guerra, i secondi della dea dell’amore.

La Lega vive in un mondo hobbesiano basato sulla forza. Conosce il potere per averlo già praticato. Dispone dunque di un ceto di professionisti capaci di maneggiarlo, nei governi locali e a Roma. Gente come Giorgetti e Calderoli si muovono tra leggi, regolamenti e burocrati come a casa propria. Soprattutto sanno che farsene del potere: lo mettono al servizio di una lista di obiettivi da raggiungere. La Lega è nata come un one-issue-party, e per molti aspetti lo è ancora. Si preoccupa solo di consegnare ai suoi elettori ciò che essi chiedono, è un «deliveroo» della politica. Tutto il resto viene dopo, e conta poco. Se servisse a ridurre gli immigrati, Salvini non esiterebbe a far saltare l’Unione Europea. La Lega ha una visione del mondo e un’ideologia, il sovranismo; dispone dunque di una rete di collegamenti internazionali, da Putin a Le Pen. La Lega ha un «capo», anzi un «capitano», si muove come una falange macedone e rade al suolo le correnti. Tutta la strumentazione della vituperata politica, che dicevano morta e sepolta, nella Lega è messa al servizio di una politica. E si vede.

I Cinquestelle vivono invece in un mondo rousseauiano, che immaginano governato dalla volontà generale. Non sono abituati né a convivere né a competere con un alleato, perché credono di rappresentare il 99% del popolo: rimossa la casta del restante 1%, il popolo si autogovernerà. Non formano dunque un personale politico, ma solo portavoce della volontà generale; e così finiscono nelle mani dei Marra e dei Lanzalone. Hanno una visione utopica del potere: per loro non serve a fare, ma a disfare, va usato per dissolverlo. Sono i discendenti della «fantasia al potere», o del «fate l’amore non la guerra». La democrazia diretta, cuore della loro straordinaria ascesa elettorale, si propone di consegnare un giorno lo scettro all’agorà, togliendolo a governo e Parlamento. Nel frattempo, visto che il potere non ammette vuoti, provano a trasferirlo su una piattaforma on line.

Così i Cinquestelle oscillano tra un’utopia rivoluzionaria e una pratica conservatrice. Il Movimento che per primo ha «visto» il futuro digitale con Gianroberto Casaleggio, ora si muove contro la sharing economy e il lavoro domenicale. Il reddito di cittadinanza con otto ore di lavoro a settimana ricorda molto da vicino i «lavori socialmente utili», inventati a Napoli tanti anni fa per sussidiare la disoccupazione fingendo di non farlo, e Di Maio assomiglia sempre più a Vincenzo Scotti, giovane ministro del lavoro degli anni 80, oggi mentore di molti «tecnici» grillini. Un po’ alla volta, il programma cinquestelle è diventato tutto un abolire: il jobs act, la Fornero, le liberalizzazioni di Monti, una decisa marcia indietro verso il futuro.

Entrato finalmente nella stanza dei bottoni, il M5S non ha trovato i bottoni. Legiferare è un lavoro lungo e complesso, comporta tecnica e competenza. Il governo Conte ha finora prodotto un solo decreto legge: misure urgenti per il tribunale di Bari. La settimana prossima arriva alle Camere quello sul terremoto, che risale ancora a Gentiloni. La sensazione è che i ministri non abbiano ancora capito come tradurre gli intenti in fatti (non è facile per nessuno: Renzi fu recordman di decreti legge, ma molti rimasero sulla carta).

A Salvini può bastare la dichiarazione di guerra all’Europa sui migranti, resa ancora più popolare in Italia dalle risposte di Macron; o una dichiarazione di guerra al Fisco sulle cartelle esattoriali; o a Saviano sulla scorta; o al ministro pentastellato della Sanità sui vaccini. Salvini viene da Marte, dunque è marziale: prima o poi si farà troppi nemici, però per il momento funziona. Ma Di Maio viene da Venere, quelli del «vaffa» sono spariti con Grillo e Di Battista, i due maestri del genere; e dunque non gli resta che il governo, il luogo dove ha condotto con successo un movimento che era nato come un meetup di stravaganti. La sfida del fare è perciò tutta sua, e per il momento la sta perdendo.

CORRIERE.IT

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