Le ombre americane sulla crisi
Si consideri il detto «Il pesce puzza dalla testa». Non è sicuro che la crisi che sta attraversando l’Europa, e che i risultati del vertice di Bruxelles hanno drammaticamente confermato, potrebbe domani arrestarsi se ci fossero cambiamenti nella politica degli Stati Uniti ma è certo, per contro, che senza quei cambiamenti la crisi della Ue non smetterà di aggravarsi. Conviene forse guardare al problema europeo da una prospettiva diversa, e più ampia, di quella che è in genere fatta propria dai commentatori delle vicende del vecchio Continente. Per questa prospettiva più ampia, se, dato un qualunque aggregato, c’è qualcosa che non va nella sua leadership, le cose andranno male in ogni altra parte di quello stesso aggregato. Magari, la malattia di cui soffre la leadership ha un’origine diversa da quella che affligge gli altri membri del consorzio ma essa contribuisce comunque ad aggravare le loro condizioni, ne impedisce la guarigione. Anche se certi europeisti, per ragioni politiche, hanno sempre cercato di minimizzare questo aspetto, l’integrazione europea prese l’avvio, in epoca di Guerra fredda, grazie alla sponsorizzazione degli Stati Uniti (a cui serviva un’Europa più forte per tenere a bada l’Unione Sovietica). Finita la Guerra fredda, e almeno fino all’Amministrazione Obama (una presidenza in fase di ripiegamento internazionale e le cui posizioni diventarono più fredde, meno coinvolte, nei confronti dell’Europa), gli Stati Uniti non cambiarono politica. L’integrazione europea, si può ben dire, era uno speciale sottoprodotto (con vita relativamente autonoma) di quel sistema multilaterale di alleanze (militare, politica, economica, culturale) che dal ’45 in poi abbiamo chiamato Occidente.
Oggi, alla Casa Bianca siede un signore che non crede nel multilateralismo, ossia non crede proprio in quel sistema che gli Stati Uniti hanno costruito dopo la guerra e che, da un lato, ha consentito loro di esercitare l’egemonia internazionale e, dall’altro, ha permesso a tutti i Paesi coinvolti – in primis, gli europei – di ricavarne importantissimi «beni pubblici» (pace, stabilità, crescita economica, libertà civili e politiche). Se quel sistema , nelle sue linee portanti, va in frantumi, non c’è verso di arrestare divisioni e spinte centrifughe anche nei sottogruppi (come l’Unione Europea) che ne sono parte integrante e che sono sorti e hanno a lungo prosperato proprio grazie a quel sistema. È in atto, in Occidente, una doppia crisi: si allentano i legami interatlantici, si approfondiscono i dissidi infraeuropei. Tra questi due fatti esiste una stretta relazione. Per giunta, si è dimostrata falsa la tesi (sostenuta a lungo da europeisti di sentimenti antiamericani) secondo cui la crisi delle relazioni atlantiche avrebbe offerto all’Europa una magnifica occasione, le avrebbe assicurato autonomia (dagli Stati Uniti), le avrebbe infine permesso di unificarsi politicamente. È accaduto il contrario: man mano che si indebolivano i legami interatlantici, si imballava anche il motore europeo.
Certamente, la crisi europea ha anche ragioni sue proprie, e che prescindono dallo stato dei rapporti fra Vecchio continente e Stati Uniti. La prima e fondamentale ragione sta nell’irrisolta ambiguità che ha segnato la storia dell’Unione Europea. Ossia, il suo doppio circuito: un processo di integrazione (mercato unico, armonizzazione giuridica, moneta, eccetera) che si sommava, senza sostituirlo, a un sistema di legittimazione (democratica) del potere politico su base nazionale. Archiviata, alla fine degli anni sessanta, la crisi indotta dalla politica di De Gaulle, e fino al 2005 (anno del referendum francese sul trattato costituzionale), per lungo tempo non ci furono rilevanti intoppi: integrazione europea e democrazie nazionali si sostenevano a vicenda, la prima favoriva la stabilità delle seconde e viceversa. Nel 2005 finì la sequenza virtuosa. In seguito, una decennale crisi economico-finanziaria e poi l’emergenza migranti hanno rafforzato la tendenza: integrazione europea e processi elettorali democratici (nazionali) sono in rotta di collisione. Questa situazione, come si vede anche in queste ore, non ha mai cessato di aggravarsi.
Gli europei si trovano in un cul-de-sac. La loro posizione sull’Europa è sempre più del tipo «Né con te né senza di te». Tutti i Paesi europei, nessuno escluso, starebbero molto peggio di come stanno – checché ne dicano i vari nazionalisti/sovranisti – se l’Europa, come è possibile, andasse prima o poi in frantumi. Al tempo stesso, le varie élite di governo si accodano, con più o meno entusiasmo, agli umori di elettorati in cui ha fatto breccia – nell’Europa del Nord come in quella Latina, o in quella Orientale – il ragionamento secondo cui il proprio Paese è sfruttato dagli «altri» (per i latini la sfruttatrice è la Germania, per i tedeschi la sfruttatrice è la parassitaria Europa latina, eccetera, eccetera). Naturalmente, in Europa i pensanti sono più di quelli che le élite (col birignao) immaginano. E difatti, i sondaggi rivelano che, nonostante l’impazzare, praticamente ovunque, della propaganda antieuropea, ci sono ancora maggioranze a favore dell’Europa. Ma ciò, di sicuro, non può bastare a fermare le spinte centrifughe in atto. Non è affatto detto che ciò che è nell’interesse dei più si realizzi. Le minoranze vocianti sono spesso in grado di sconfiggere le maggioranze silenziose. Con molta più frequenza di quanto non si creda le passioni irrazionali possono avere la meglio sull’interesse e danneggiarlo. La crisi dell’Europa ha anche le sue proprie, specifiche, ragioni. Ma quanto sta accadendo nei rapporti fra Europa e Stati Uniti non è di aiuto.
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