T-shirt e pugno chiuso: Fico ormai è il leader dell’estrema sinistra
Una maglietta che viene da lontano. Dagli anni Settanta, dalla cultura antagonista dei movimenti a sinistra del Pci, dalla rottura del protocollo, strappato dai leader di quei movimenti.
Il presidente della Camera Roberto Fico in visita all’hotspot di Pozzallo ha esibito quel look ultrainformale, completato con un inelegante gilet da simil-pescatore, e cosi, forse senza nemmeno volerlo, ha messo in chiaro il proprio albero genealogico. Quella maglietta è a modo suo un’icona, come lo è il pugno chiuso, in occasione della parata del 2 giugno, e come lo sono le mani in tasca, mentre veniva intonato l’inno di Mameli, sottile momento di disagio se non di contestazione di un’idea patriottica di Paese che non gli appartiene.
Sì, si può dire che Fico sia figlio di quella linea minoritaria ma mai debole che ha sempre riempito le piazze e fatto flop nelle urne: quella dell’ultrasinistra o sinistra radicale che dir si voglia. Naturalmente aggiornata ai tempi di oggi: la sua barba ricorda quelle guerrigliere e operaie di tanti protagonisti della nostra storia recente, dall’immancabile Che a Lula, e la sua formazione ha rimandi semantici sorprendenti a una gauche ora vintage ma cui fino a ieri eravamo abituati. Ecco che la sua tesi di laurea ha un titolo che sembra una scheggia di quel mondo pensoso e strutturato che si è sfaldato da ultimo insieme al suo popolo: «Identità sociale e linguistica della musica neomelodica napoletana». E già ti pare di leggere uno di quei saggi con mal di testa incorporato che tenevano insieme le categorie economiche e gli ideali della solidarietà. Ma Fico, classe 1974, è troppo giovane per essere letto con i sacri crismi di quella stagione. E la sua biografia è un’immersione nella società liquida, frammentata e spezzettata di oggi che ha perso per strada gli operai, le sezioni del Pci e pure le pulsioni di quell’area un tempo scoppiettante e oggi sbiadita nelle facce anonime di Pietro Grasso e dintorni. Dunque, Fico ha recitato più parti in commedia: impiegato in un call center, manager in un hotel, importatore di tessuti dal Marocco, con in più la versatilità e l’inquietudine che sono nel suo Dna napoletano.
Poi nel 2005 la fondazione di uno dei primi meetup e l’adesione al verbo grillino, incrociando i temi della giustizia sociale, della difesa dell’ambiente, vedi il referendum sull’acqua nel 2011, e l’eterno ribollire del Sud. Che a Napoli ha avuto un interprete istrionico come Luigi de Magistris, ultima variante del tribuno alla Masaniello. Spinte. Controspinte. Sussulti.
E la scoperta che questo ragazzo descamisado, che va a Montecitorio prendendo l’autobus di linea della disastrata Atac, è l’ultimo leader di una sinistra altrimenti irrimediabilmente evaporata. I dissidi con il pragmatico e carrierista Di Maio e la decisione di non salire sul palco di Rimini. L’orgoglio di un’appartenenza, ribadita con parole definitive: «Non saremo mai la Lega del Sud». Ora quella frase eretica in un’Italia sempre più al passo marziale di Salvini: «Io i porti li aprirei». Forse una citazione vintage o forse una consacrazione in un Paese in cui anche il pensiero è sempre più flat.