Copyright, valore per tutti (anche per la democrazia)
Dopo una campagna lobbistica pesantissima, il Parlamento Europeo ha bocciato la proposta di riforma del diritto d’autore elaborata al suo interno per adattare il copyright alla nuova realtà dell’era di Internet. La mancata approvazione di norme che avrebbero consentito a chi produce contenuti di qualità in vari settori creativi — stampa, musica, cinema, letteratura, arti figurative e altro ancora — di essere meglio retribuito quando i risultati del suo lavoro finiscono nelle grandi piattaforme digitali, è una cattiva notizia
per i giornali ai quali i giganti di big tech hanno già tolto molto ossigeno. Ma deve essere chiaro a tutti che in questa disputa c’è in ballo molto di più della tutela dei canali di finanziamento di una stampa che, per quanto in crisi, è tuttora ovunque nel mondo, il principale strumento di difesa della democrazia: è in gioco il diritto di difendere il valore del lavoro intellettuale svolto in qualunque campo, da protagonisti grandi e piccoli. E, soprattutto, di non vederlo stravolto da chi, pur di bloccare un provvedimento contrario ai suoi interessi, non esita a usare i suoi potenti megafoni per diffondere slogan fuorvianti o falsi.
Gioiscono i semi monopoli digitali della rete — da Facebook a Google — secondo i quali quella di ieri è una vittoria della democrazia. In realtà è solo una vittoria per i loro già giganteschi profitti. Con le nuove norme infatti avrebbero dovuto pagare di più per i contenuti che prelevano dai vari autori e avrebbero dovuto sostenere costi aggiuntivi per istituire un filtro capace di verificare quali testi e immagini immessi nelle loro reti violano il copyright. E gioiscono i leader populisti che devono alla capacità del web di amplificare l’eco dei loro slogan buona parte del successo politico raccolto.
In Italia si sono fatti sentire i due vicepremier Salvini e Di Maio. Il primo ha parlato di «bavaglio alla rete respinto a Strasburgo». Il secondo ha ammonito: «Nessuno si deve permettere di silenziare la rete e distruggere le sue potenzialità in termini di libertà di espressione e sviluppo economico».
Dunque chiedere il giusto compenso per il proprio lavoro intellettuale sarebbe un bavaglio, un silenziatore? E negarlo non è un regalo ai giganti del web? Aziende che con un’abile campagna lobbistica hanno trasformato un compenso (l’esito di una transazione tra due soggetti privati) in una tassa: la norma bocciata ieri era stata infatti bollata come un’imposta sui link. Da parte di giganti di big tech che, quando parlano di tasse, dovrebbero arrossire e cambiare discorso.
La discussione verrà ripresa a settembre, quando sarà presentato un nuovo testo. È possibile che qualche correzione sia opportuna se, come sostengono alcuni, il filtro previsto dal testo bocciato ieri comporta adempimenti che possono essere semplificati. Ma è necessario che tutti si rimettano attorno al tavolo con uno spirito diverso: i giganti tecnologici che ci hanno dato tanti strumenti importanti e positivi, ma che da un anno a questa parte fanno anche mea culpa per interferenze e stravolgimenti della vita politica e sociale dei quali si sono resi involontariamente responsabili, ammettono (come nel caso del fondatore di Twitter, Evan Williams) di aver usato con leggerezza il loro enorme potere per promuovere soluzioni sbagliate. Ma poi continuano a usare la loro forza lobbistica come uno schiacciasassi.
Pensano che nell’era di Internet il copyright abbia perso gran parte del suo valore. Poi, però, scatenano battaglie giudiziarie quando ritengono che un loro ingegnere se ne sia andato portandosi via illegittimamente soluzioni industriali sulle quali ha lavorato, come avvenuto nella recente disputa Google-Uber sulle tecnologie per l’auto robot. O come avvenuto in passato nelle battaglie legali tra Apple e Samsung.
È, però, necessario un atteggiamento più responsabile anche da parte delle forze politiche: ci stiamo abituando a dosi massicce di verve polemica, con l’esaltazione della disintermediazione dell’informazione, da parte del leader che parla direttamente al suo popolo, felice di prendersela coi «giornaloni ufficiali». Ma, proprio perché si parla senza mediazioni, prima di definire un adeguamento delle regole per il pagamento degli autori un tentativo di «imbavagliare noi e soprattutto voi», bisognerebbe riflettere sulle conseguenze potenziali. Per tutti. E per la democrazia.
CORRIERE.IT