Contratto in bilico

La promessa è il cambiamento: perfino qualcosa di simile a una rivoluzione. Ma per adesso non se ne vede traccia. Le prime nomine espresse da Movimento Cinque Stelle e Lega appaiono operazioni al ribasso. E i toni liquidatori dei vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini contro gli avversari non riescono a cancellare le avvisaglie di una «crisi contrattuale» allo stato nascente. Il Vangelo del patto governativo e della pretesa rivoluzione giallo-verde si sta rivelando un testo messo a dura prova dalla realtà, dalla competizione e dagli interessi contraddittori e non sempre convergenti dei diarchi del governo. Lo scontro tra Di Maio e Confindustria sul cosiddetto «decreto di dignità» è, visto controluce, un conflitto che lambisce anche parte dell’elettorato leghista; e dunque pone qualche problema al vertice del Carroccio. E l’altolà del ministro della Giustizia del M5S, Alfonso Bonafede, a una «legittima difesa» declinata in modo inquietante come diritto a armarsi, contrasta un’iniziativa ritenuta strategica dal partito di Salvini. È su questo sfondo convulso che si sta consumando la partita delle nomine nelle imprese pubbliche: le condiziona, ne definisce i contorni, o le rallenta.

Di Maio ieri assicurava che, se c’è ritardo nella copertura di alcune caselle di peso, dipende dal fatto che si stanno scegliendo «i migliori». C’è da sperarlo. La mitica «democrazia diretta» via internet finora ha fatto emergere profili marcati dalla fedeltà più che da particolari competenze, rafforzando le perplessità sulla sua trasparenza e efficacia. E il nulla di fatto sui vertici della Cassa depositi e prestiti lascia indovinare una tensione tutta all’interno del governo: stavolta non tra Di Maio e l’altro vicepremier Salvini, ma tra loro e il ministro dell’economia, Giovanni Tria. La vera novità, ma in negativo, è proprio la sorda lotta che si indovina in filigrana tra i due partiti di maggioranza e i ministri sospettati di eccessiva «ortodossia» europeista: in testa Tria. Il timore è che l’ostracismo tenda a scattare contro chiunque ponga limiti al volere dell’esecutivo; a chiunque inviti a rispettare vincoli di bilancio e compatibilità tra provvedimenti e coperture finanziarie. È un guaio, se la competenza viene percepita come cavallo di Troia dei nemici e non come garanzia di efficienza; e se i «no» obbligati sono vissuti come strumento di sabotaggio contro una presunta rivoluzione culturale in atto.

L’impressione, speriamo smentita nelle prossime ore, è che si vogliano vertici delle aziende pubbliche attenti soprattutto a assecondare gli impulsi del governo. In sé, la cosa non è negativa: che il sistema marci in una stessa direzione ne garantisce la funzionalità e l’incisività. Solleverebbe, invece, più di una perplessità, dover registrare leggi e nomine calibrate sulla vicinanza personale e politica, senza preoccuparsi troppo della tenuta del sistema; e vedere prevalere scelte presentate come sfida aperta all’agenda delle istituzioni europee e della Bce di Mario Draghi. Si tratta di un’analisi non smentita, semmai rafforzata dall’elezione dei vertici della Vigilanza Rai e del Copasir, l’organismo parlamentare che si occupa di servizi segreti. L’accordo tra Pd e Forza Italia sulla presidenza di due commissioni ritenute di grande rilevanza, risponde a una pura logica di sopravvivenza; e al mantenimento di un’influenza residuale. Più che sublimare e estremizzare conflitti di interessi e «patti del Nazareno» politicamente postumi tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, conferma semmai che la vera assicurazione sulla vita della maggioranza è l’opposizione.

Ma non può bastare a velare le difficoltà di un governo che nasconde la sua debolezza dietro toni assertivi e aggressivi. E non sembra ancora in grado di sottrarsi alle dinamiche del passato. La sensazione è che, invece di cancellarle, le imiti e rischi perfino di accentuarle: come se l’odiato sistema avesse meccanismi interni dai quali nemmeno forze ostentatamente «palingenetiche» riescono a emanciparsi. Rimane il dubbio che, se il famoso contratto stipulato da Di Maio e Salvini e garantito dal premier Giuseppe Conte fosse cementato dalla politica e non solo dal potere, funzionerebbe meglio. Permetterebbe non di esasperare ma di comporre contrasti che si annidano nell’eterogeneità e nella confusione delle proposte; e di sfrondare almeno una parte di quanto di demagogico e di improbabile è stato promesso in campagna elettorale. È un bagno di realismo necessario. E se la maggioranza non accetta di farlo, la realtà potrebbe vendicarsi prima del previsto: nonostante la debolezza delle opposizioni.

CORRIERE.IT

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