La vigilanza ai vigilantes
di LUCA BOTTURA
«La legge Gasparri si chiama così perché l’ha scritta Berlusconi, ma la legge Gasparri». Riciclo una mia vecchia battuta per solidarizzare con l’ottimo Maurizio, polverizzato sull’altare della commissione di Vigilanza dal diktat grillino: «Quello no, non va bene. Troppo legato a Berlusconi».
Il seguito è un paradigma (traduco per Toninelli: un esempio) della fine che normalmente fanno le sparate a Cinque Stelle: a vegliare sulla Rai, sulla poltrona che ha proiettato Roberto Fico a foglia di sé medesimo del dimaismo, sarà Alberto Barachini. Un giornalista di Mediaset, proveniente dalle due testate specializzate in fiction: Tg4 e TgCom. Dunque Gasparri no, ma un dipendente del principale concorrente sì.
Ovvio: lavorare a Cologno non significa condividere il berlusconismo, quella strana ideologia che va dai fratelli Bontate a gente rispettabile del calibro di… mi verrà in mente. Ma è un fatto: il giornalismo biscionato ha fatto – con meritevoli eccellenze – da fertilizzante nel campo di paure in cui ha vendemmiato Salvini. E oggi Berlusconi lo eleva a ponte levatoio del fortino con cui da sempre protegge le proprie aziende. Paradossalmente, pure da Salvini. È agli atti, cioè su Youtube, il memorabile editoriale di Studio Aperto in cui Giovanni Toti, prima di scoprire che la Liguria è in Liguria, raccontava di come la sentenza di condanna (!) di Dell’Utri spazzasse via l’ipotesi di rapporti tra Forza Italia e la mafia. Spente o sopite le mire di riportare i Savoia al Quirinale, Antonio Tajani diresse a lungo la redazione romana de Il Giornale. Prima di diventare portavoce di Berlusconi in Italia (1994) e in Europa (oggi, non accreditato). Idem per Giorgio Mulè, che dalla direzione di Panorama ha portato il suo moderatismo d’assalto fino alla Camera.
La lista è lunga. La drammatica carenza di personale politico nel partito che aveva il sole in tasca, ma anche la Carlucci in lista, oltre al condono in canna, viene affrontata seminando nei posti che contano i più democristiani del lotto, ormai inutili a gestire un consenso che non c’è più.
A questo devono aver pensato, al male minore, anche quelli che volevano aprire il parlamento come una scatoletta di tonno. E ora si contentano di scegliere il contorno di stagione.
Resta una considerazione appena dolente: bravo Barachini, bravo Tajani, bravo Mulè. Ma che a Emilio Fede non sia stata riservata almeno una scrivania al Cnel, beh, è proprio una vergogna.
Meno male che Silvio c’era.
REP.IT