Vittorio Feltri racconta i 18 anni di Libero: “Salvi per miracolo, romperemo ancora i c***”
Si fa presto a dire 18 anni di vita. Ma per un giornale appena diventato maggiorenne sono un’eternità, impossibile riassumerne tanti eventi in un articolo. D’altronde i lettori affezionati, quelli storici per intenderci, li conoscono già, avendoli condivisi con noi. Libero infatti si è sempre raccontato, non ha mai nascosto le proprie vicende, amare o esaltanti che fossero. Le ha spiattellate sulle pagine senza pudore né compiacimento. Credo che questa, principalmente, sia stata e sia la ragione di un successo raro nell’editoria italiana, figlia di una mignotta e di tanti padri interessati agli affari loro, non ai nostri.
Libero è una eccezione. Nasce per scommessa, si salva per miracolo, si sviluppa con le proprie forze e si impone sul mercato per l’impertinenza: un quotidiano extracomunitario, cioè fuori dal gregge dell’informazione paludata e ossequiosa di qualsiasi potere, cui gli editori di norma concedono favori (sotto forma di encomi) allo scopo di ottenerne (sotto forma di business). Vabbè, ci siamo capiti.
Mi permetto, nella ricorrenza del 18° compleanno del nostro foglio, un cenno autocelebrativo per soddisfare la mia vanità, il desiderio peccaminoso di darmi delle arie: l’idea di Libero è mia. Mi è venuta nella vasca da bagno nella quale uso oziare ogni mattina prima di affrontare le seccature di giornata.
Covavo da anni il proposito di lanciare un foglio diverso dagli altri, spettinato e irriverente, e ne parlavo con chiunque senza mai trovare un pazzo che lo finanziasse. Ovvio. Gli editori puri dalle nostre parti sono estinti da mezzo secolo. Sennonché quella mattina, mentre mi godevo il tepore dell’acqua, ricevetti una telefonata al cellulare in bilico sul bordo della vasca. Era Massimo Massano, padrone del Borghese, cui avevo rivelato da tempo l’insano progetto editoriale. Mi disse secco: se ha ancora intenzione di avviare un quotidiano, sono disponibile a investire un po’ di soldi.
Cominciai a sognare, anzi, vagheggiare. E l’acqua intanto si freddò. Le meningi ne trassero giovamento e, per incanto, mi venne in mente il nome giusto: Libero. Più che un nome era un aggettivo, ma andava bene lo stesso. Questo almeno fu il responso di una ricerca di mercato commissionata da Massano a un istituto demoscopico. Un mese più tardi – aprile 2000 – era tutto pronto, anche la grafica di Bevilacqua che avevo sperimentato all’Europeo e portato con me all’Indipendente e al Giornale.
La parola d’ordine del piccolo gruppo di lavoro era: spendere poco. E spendemmo pochissimo. Scovammo una sede a pigione modesta in via Merano, praticamente sotto i ponti della ferrovia in zona viale Monza. Il mio ufficio era a ridosso della massicciata e quando il treno passava provocava un terremoto: i libri impilati sulla scrivania traballavano e finivano regolarmente sul pavimento. Transitavano una trentina di convogli al dì, e dalla mia bocca prorompevano quindi altrettanti moccoli.
Per fare i giornali purtroppo occorrono i giornalisti. Bisognava reclutarne una quarantina, il minimo indispensabile: venti professionisti e venti praticanti da esaminare ed eventualmente confermare. Nessun problema ad arruolare giovani disoccupati o in cerca di un mediocre avvenire da cronista. Si presentò un esercito di disperati e ne selezionammo appunto una ventina, non i più raccomandati ma i più raccomandabili. E i professionisti? A parte Renato Farina, Luigi Santambrogio e me, lo stato maggiore, non c’era un cane che si fidasse a lasciare il certo per l’incerto, e più incerto di Libero allora non v’era nulla al mondo. Imbarcammo gente anonima dal curriculum grigio. D’altro canto la barca era sul punto di salpare, troppo tardi per i pentimenti e perfino per i ripensamenti. Organizzammo soltanto un numero zero (di prova) e quando mi portarono le pagine fui colto da conati di vomito. Titoli sgangherati, articoli abborracciati. Uno schifo. E mancavano 24 ore alla partenza ufficiale. Non mi sparai perché ero disarmato; avrei potuto ripiegare sul treno che per suicidarsi è un bel mezzo. Decisi invece di soffrire in espiazione del mio peccato di presunzione: fare un giornale con due lire è un atto di temerarietà meritevole di patimenti atroci. Che non mi feci mancare. Un mese più tardi avevamo esaurito le scorte di denaro, e la soluzione finale del treno mi pareva a tratti la più idonea. Libero non era granché (eufemismo) e tuttavia non voleva scendere sotto le 40mila copie vendute in edicola. Parecchie per un giornale compilato dalla banda del fil de fèr. Chiuderlo sarebbe stata una follia quanto tenerlo aperto senza capitali.
Mentre si avvicinava il giorno delle esequie, si appalesò un imprenditore riminese talmente di buona volontà, Patacconi, da offrirci una ciambella di salvataggio consistente in un miliardino. Attribuimmo il prodigio alle assidue preghiere di Renato Farina rivolte alla Madonna di Caravaggio, nel santuario della quale il pio vicedirettore trascorreva più tempo che in redazione.
Entrammo così trionfalmente nel 2001. Le elezioni politiche corroborarono le vendite. I redattori rapidamente imparavano, i praticanti pure. Alessandro Sallusti, giunto in nostro soccorso da Panorama, si prodigò per perfezionare i meccanismi interni. Insomma, Libero marciava. Quando ci fu il G8 a Genova, e accadde il disastro ancora tristemente attuale causa le condanne rifilate alle forze dell’ordine, spacciammo in poche ore 70mila copie. Un record. Fu un’estate ricca di notizie e di brillante diffusione. Ci sentivamo sicuri o quasi. A settembre, giù le Torri Gemelle e su le copie in edicola.
Troppo bello per durare. Infatti, una mattina Farina mi telefona e annuncia con voce tremula la prematura dipartita di Patacconi, l’imprenditore riminese della ciambella miliardaria. Ripiombiamo nel più tetro sconforto. E adesso? Vi risparmio, e mi risparmio, la narrazione del calvario che ci toccò. All’inizio di novembre, la carta era pressoché esaurita, lo stampatore reclamava il saldo delle fatture, i trasportatori arricciavano il naso. E gli stipendi? Mah! Ero in confusione, fingevo serenità e ottimismo per non deprimere la redazione che però, ormai matura, intuiva l’imminenza della sepoltura di Libero.
Il destino, tanto crudele fino a quel momento, ebbe pietà di noi. Discesero dal cielo gli Angelucci custodi e acquistarono la testata; ci prestarono denaro a sufficienza lasciando a noi la gestione del giornale. Fine dell’incubo. Da qui in poi, Libero prese a volare e volò in alte quote di copie vendute. Volò alto anche nella considerazione di chi lo aveva snobbato, scommettendo sulla sua morte. Nove anni dopo, una mattina di luglio, sono volato via anch’io, non so perché, forse avevo voglia di altre grane.
Ne ho trovate in quantità, gironzolando da un quotidiano all’altro senza requie. Dopo alcuni anni da nomade del giornalismo, sempre alla ricerca di emozioni, sono stato preso dalla nostalgia e ho voluto rientrare a casa, a Libero. Che ormai, causa la grande crisi della carta stampata, provocata dalle tecnologie (internet e affini), si era afflosciato riducendo in misura preoccupante le proprie vendite. Era cioè sceso ai livelli delle tribolate origini. Un dramma. L’imperativo era resistere e possibilmente risalire. Una parola. Ma nel lavoro come nella vita conta la volontà. E noi ce l’abbiamo messa tutta. Cosicché siamo ripartiti, non dico a tutto gas, ma quasi. I tempi erano cambiati, non più d’oro quanto nel primo decennio del 2000, però ci siamo adattati con la forza della disperazione e abbiamo costruito un nuovo piccolo miracolo. Nonostante la concorrenza di chi pretendeva di vederci stecchiti in una bara, ci siamo impegnati e i risultati, a un paio di anni di distanza sono giunti puntuali come il destino. Ed eccoci ancora qui con la cresta alta a dire la nostra con il consueto stile scapigliato. Odiamo il politicamente corretto, il linguaggio burocratico, i luoghi comuni, il pensiero unico. Preferiamo il lessico familiare, colloquiale, talvolta indugiamo nel turpiloquio che ha il pregio della spontaneità. E i lettori, i nostri amati lettori, ci hanno premiato con la loro attenzione, consentendoci di sopravvivere col desiderio del riscatto. Siamo di nuovo qui in trincea a battagliare come piace a noi. Lentamente i risultati sono arrivati. Mentre la quasi totalità dei giornali si è smagrita smarrendo migliaia di copie, noi, nella nostra modestia di artigiani dell’informazione, nel maggio scorso abbiamo guadagnato il 6 per cento delle vendite, e in giugno e luglio le cose sono procedute di bene in meglio. Dobbiamo il successo al nostro pubblico anticonformista, che ringraziamo non formalmente bensì col cuore di lavoratori instancabili. Grazie amici che ci permettete di stare in piedi, belli ritti e in salute. Il mio cavallino alato, il mio Pegaso è vispo – a diciotto anni compiuti – e rompe i coglioni e gli schemi scontati di chi fa il nostro mestiere, l’unico che sappiamo fare con amore e dedizione. La mia speranza è di morire qui dietro la scrivania, al vostro servizio.
LIBERO.IT