La passione per la verità di Sergio Marchionne
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Sarà ricordato come il manager che ha inferto il colpo di grazia al sindacato, messo a nudo la fragilità delle organizzazioni padronali e rivelato in tutta la sua povertà l’esaurirsi dell’orizzonte produttivo italiano. Con le sue scelte impopolari ha provocato (e sostenuto) il fuoco di fila di un doloroso dibattito pubblico, ma ha anche obbligato tutti a prendere atto della fine delle relazioni industriali come le conoscevamo. Che lo si amasse oppure no, Sergio Marchionne – d’accordo o meno che si fosse con lui, e io lo sono stata spesso – è, anche, sempre stato impossibile non apprezzarlo, proprio per la devozione brusca che ha avuto per la verità. Qualità molto scarsa nel mondo del capitalismo italiano.
Del resto, la sua forza è stata proprio la sua diversità. Costituita da una profonda ibridazione fra mondi e classi. Uomo in bilico fra diversi paesi, diverse culture industriali, fra umili origini ed enorme potere acquisito, è sempre rimasto, nell’epoca del dominio della immaterialità del denaro, un uomo di produzione. Odoroso di ferro, macchine, vernice, e numeri.
Per questo il suo abbandono del nostro paese ha svelato la fine della potenza industriale italiana. Una gigantesca operazione verità, appunto, che ha terremotato, ma anche risettato il sistema.
L’HUFFPOST