Cosa altro deve combinare Di Maio per chiedere le sue dimissioni?
Che nessuno – anche a seguito delle dichiarazioni irresponsabili sull’Ilva svolte alla Camera – abbia chiesto con forza le dimissioni di Luigi Di Maio è la prova che ci stiamo avviando a marce forzate verso un regime giallo-verde.
È insostenibile la linea di condotta del ministro sulla vicenda della tabella inserita (come da sua pubblica versione) nel corso del tragitto tra il Ministero e il Quirinale, nella Relazione Tecnica al disegno di legge Dignità ad opera di una congiura internazionale (la “manina”) con addentellati negli apparati dello Stato.
Era da subito evidente (ben prima dell’audizione in cui Tito Boeri ha ricostruito in modo inoppugnabile i fatti) che si trattava di una montatura tesa a neutralizzare la scoperta per cui il “gioiello” della consorteria gialla del governo, invece di creare nuovi posti di lavoro più tutelati, ne distruggeva almeno 80 mila in un decennio (HuffPost è stato tra i primi a mettere in chiaro come non ci fosse alcun bisogno di dissertare sulle origini della tabella, quando l’articolo 14 comma due del decreto stesso prevedeva una copertura finanziaria poliennale delle minori entrate fiscali e contributive derivanti (in conseguenza della minore occupazione) dagli effetti delle norme sui contratti a termine e sull’incremento dell’indennità di licenziamento ingiustificato.
Ma Di Maio ha confermato, ugualmente, la sua versione contraffatta in Aula alla Camera e – questo è l’aspetto più grave – ha consentito, in prima battuta, che fossero accusati del misfatto organi ed istituti cruciali della pubblica amministrazione, facendo trapelare il proposito di intransigenti repulisti nei ministeri coinvolti e minacciando un uso vendicativo dello spoil system.
Nel bel mezzo di questo vergognoso episodio dei “tempi nuovi”, c’è stato un altro ministro che avrebbe fatto meglio a non farsi coinvolgere nella pagliacciata della “manina”. Mi riferisco a Giovanni Tria (che peraltro conosco e stimo da almeno un quarto di secolo), il quale ha sottoscritto con Di Maio una nota congiunta, nella quale era confermata l’azione lobbistica della “manina”, ma veniva scaricata sull’Inps tutta la responsabilità della tabella infiltrata, ritenuta dallo stesso Tria – ecco il poderoso assist a Di Maio – priva di valore scientifico e perciò discutibile.
Tutto ciò col nobile proposito di ottenere un’assoluzione in istruttoria, da parte del ministro, per gli apparati del Mef e della Rgs (poi si vedrà che cosa succederà alla scadenza del mandato di Daniele Franco). Va ricordato, a onor del vero, che – se congiura ci fosse stata veramente – la Ragioneria non avrebbe potuto cavarsela affermando “È stato Boeri”, perché la responsabilità finale della Relazione Tecnica è solo sua. È la Ragioneria che, considerata tutta la documentazione raccolta, appone in calce il famoso “bollino” che assicurando la conformità tra oneri e copertura delle norme di spesa garantisce il proseguimento nell’iter legislativo. Quindi l’Inps – e tanto più Boeri (il quale non passa le notti ad elaborare tabelle truffaldine, ma si fida dei suoi uffici – non avevano nessuna colpa. Come avviene in questi casi, era in corso da settimane una normale e stretta collaborazione tra gli uffici dei ministeri competenti e l’Inps, con uno scambio di informazioni e di messe a punto se del caso ripetute. Ma il tavolo dove finisce lo scarico del barile è quello del Ragioniere generale.
Dal canto suo, Matteo Salvini, tra una caccia ai negher e una chiusura dei porti, non ha esitato a chiedere le dimissioni di Tito Boeri accusandolo di “fare politica”. Certo la presidenza del professore della Bocconi è stata molto attiva e vivace ed è spesso approdata a iniziative parecchio discutibili proprio sul piano dello sconfinamento dei ruoli. Ricordo le polemiche contro i vitalizi e le c.d. pensioni d’oro, corredate anche da articolate proposte sul piano tecnico. In seguito l’Inps non esitò a presentare – con il titolo “per equità e non per cassa” – persino uno schema di disegno di legge, con tutti gli annessi e connessi, di riforma della legge Fornero e di riordino più complessivo del sistema di welfare. La cosa non piacque al governo (Renzi) di allora e al ministro Poletti, che si sentì esautorato. Ma nessuno si azzardò a replicare come hanno fatto adesso questi ragazzotti, per di più in una circostanza in cui tutte la ragioni stanno dalla parte di Tito Boeri.
Un’ultima raccomandazione a Giovanni Tria: attento a non ripetere l’esperienza ed il ruolo del conte Giuseppe Volpi di Misurata, il tecnico che fu ministro della Finanze dal 1925 al 1928 del governo Mussolini.
Ps. Resto in attesa degli insulti. Ma se qualcuno si sforzasse di fornire qualche argomento mi farebbe piacere.
L’HUFFPOST