Governo, cresce il grido d’allarme

C’è qualcosa di molto preoccupante nelle decisioni e negli annunci che ogni giorno arrivano dagli esponenti del nuovo governo. Alcune scelte hanno già avuto conseguenze immediate, altre possono cambiare (irrimediabilmente) la cultura del lavoro e dell’impresa nel nostro Paese. Misure sui contratti, Ilva, Alta velocità, gasdotto Tap, Alitalia: sono i capitoli di un «vasto programma» che sta diffondendo l’idea di un’Italia che si chiude al mondo, non rispetta gli impegni, rinuncia alle sfide della competitività nel mercato globale, ostacola chi il lavoro lo crea. Una cultura che ha pregiudizi verso gli imprenditori (siano essi piccoli, medi o grandi), che ingabbia lo spirito d’iniziativa individuale, il desiderio di migliorare la propria condizione di vita con le armi della competenza, del rischio e della determinazione. Si può decrescere (non sappiamo se felicemente o no), tanto ci penserà lo Stato. O la Cassa Depositi e Prestiti, cassaforte del risparmio degli italiani. E se non ci sono i soldi per gli interventi pubblici meglio accumulare altro deficit. Come se non avessimo già un debito pubblico enorme che i contribuenti, prima o poi, dovranno pagare. Le vicende dell’acciaieria Ilva a Taranto e della Tav Torino-Lione sono emblematiche soprattutto per il segnale che stiamo lanciando agli investitori stranieri che ancora producono in Italia o avrebbero intenzione di farlo. Prima erano la burocrazia e la corruzione a costituire i principali ostacoli, ora c’è un’ideologia di governo improntata al sospetto. Che rimette continuamente in discussione gli impegni presi e i contratti firmati. Nel caso della Tav crea anche le condizioni per forti penali e per la revoca dei finanziamenti europei nei prossimi anni.<

 

C’è un sentimento diffuso di disagio nel mondo dell’impresa, soprattutto nel Nord del Paese. Si teme che la Tav sia solo il primo passo. Poi arriverà il no a tante infrastrutture e opere pubbliche necessarie e attese da anni. Queste paure sono ingigantite dalle misure che pongono molti vincoli e rendono più costosi i contratti di lavoro a tempo determinato. Dagli incontri dei seicento imprenditori veneti, da tutte le associazioni di categoria arriva lo stesso grido d’allarme: state creando le condizioni per fermare una crescita già debole. Non ci saranno più posti di lavoro a tempo indeterminato ma semplicemente meno posti di lavoro. Non esiste un’azienda che manderà via un lavoratore se le sue attività crescono; perché quel tecnico, quell’operaio sono la sua forza. Un bene prezioso per quello che ha imparato, per le sue competenze e il suo legame con l’impresa.

Il grido d’allarme è rivolto soprattutto a Matteo Salvini, detentore di un largo consenso nel mondo produttivo. Fino a quando asseconderà l’alleato di governo? E come farà a non ascoltare i suoi governatori e perfino il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giorgetti convinto che in autunno «sui mercati saremo bombardati»? Sono passati poco più di due mesi di vita del nuovo governo ma sono già esplosi i contrasti tra i due mondi rappresentati da Cinque Stelle e Lega. È necessario un chiarimento rapido prima che sia troppo tardi.

C’è un sondaggio realizzato nei giorni scorsi che racconta bene come si stia modificando lo spirito del Paese. Il lavoro più ambito (in fortissima crescita, particolarmente tra gli elettori del M5S) è l’impiego pubblico. Sta radicandosi l’illusione che lo Stato penserà a tutto: con i sussidi o con i suoi interventi. Un Eden, un mondo fantastico in cui ogni cosa è possibile. Viene negata così l’unica verità indiscutibile: il lavoro non si crea con le leggi, i divieti o sperperando denaro pubblico. La crescita (dell’economia e dell’occupazione) dipende dagli imprenditori e dai lavoratori, dalle loro capacità e dalle loro iniziative. Per dividersi la torta prima qualcuno deve cucinarla. Lo stesso vale per la ricchezza e il benessere di un Paese.

CORRIERE.IT

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