La sinistra fuori dal tempo

Davvero a sinistra si crede che per fare opposizione al governo Salvini-Di Maio e alle novità dei tempi che esso rappresenta, basti mettere in campo ogni volta ragionevoli proposte alternative, basti essere a favore del «buonismo» e contro il «cattivismo», ligi alla Costituzione, rispettosi dei «mercati» e dei «conti in ordine», osservanti delle buone maniere internazionali? Se c’è qualcuno che lo pensa credo che commetta un grave errore. Se è vero infatti, come si continua a ripetere, che ciò che sta succedendo non solo in Italia ma in molti altri luoghi d’Europa e oltreatlantico è una svolta storica, una vera e propria emersione di nuove, inquietanti, mentalità collettive, allora è evidente come sia vano pensare che tutto questo possa essere contrastato con vecchie costellazioni di idee scaturite da vecchie identità politiche. È evidente che ciò di cui la Sinistra ha bisogno è un modo d’essere e di pensare del tutto nuovo: di una nuova identità politica.

Il blocco nazional-populista ha vinto perché è stato capace di ascoltare e interpretare, e ha cercato di dare una risposta (se ci riuscirà davvero è un altro discorso) a una vasta domanda di protezione sociale di tipo nuovo suscitata dagli effetti sia della globalizzazione e dai molteplici processi d’internazionalizzazione politica e culturale ad essa in parte connessi, sia dal progresso tecnico-scientifico specie nel settore della telematica.

Una richiesta di protezione, ad esempio, nei confronti della riconfigurazione e dal restringimento del mercato del lavoro ovvero della concorrenza selvaggia effetto dell’importazione di merci a basso prezzo (con relativi effetti in entrambi i casi sul livello delle retribuzioni e sulla localizzazione delle unità produttive). Una richiesta di protezione altresì sul piano simbolico-culturale in seguito alla perdita di prestigio di tutto quanto era nazionale e perciò consueto rispetto all’affermazione dirompente, viceversa, di linguaggi, consuetudini e prospettive di tipo internazionale ignote ai più. E infine una richiesta di protezione anche di tipo politico in seguito alla perdita d’incidenza dei meccanismi democratici tradizionali legati al voto, alle elezioni, al ruolo dei partiti e della rappresentanza parlamentare: tutti ambiti in precedenza percepiti come effettivi strumenti e/o canali di pressione a disposizione del comune cittadino.

Perlopiù questa nuova richiesta di protezione sociale, com’è sempre accaduto, si muove in una direzione precisa: la riaffermazione del primato della politica sull’economia. Non per nulla è stata, ed è, precisamente questa la chiave del successo nazional-populista: una forte enfasi sulla decisione politica, che è stata scambiata per il suo opposto, per antipolitica, a causa della fallace etichetta affibbiatale dagli avversari, ingannati da quella che in realtà era solo la critica plebea da parte dei nuovi arrivati nei confronti dei vecchi partiti e delle loro malefatte.

Se le cose stanno così, c’è davvero qualcosa di paradossale nell’attuale situazione della Sinistra. In cos’altro è consistita infatti la sua vera identità storica se non proprio nell’affermazione del primato della politica sull’economia? In cos’altro se non nell’imbracciare l’arma del suffragio universale – la massima arma della politica, per l’appunto – allo scopo di limitare il potere dei più a danno dei pochi, di correggere i meccanismi dell’economia capitalista? È del resto la stessa democrazia che è nata in questo modo, e questa è stata finora la dialettica delle società democratiche: la finanza e l’industria a fare il loro mestiere mirando al massimo profitto mentre la politica faceva il suo: mirando a proteggere i più deboli mediante la redistribuzione delle risorse, cercando di tenere sotto controllo l’equilibrio complessivo della società e non esitando a tale scopo a stabilire regole e correttivi ai meccanismi economici.

Ma spesso proteggere vuol dire conservare. Da questo punto di vista è innegabile che nello svolgere il ruolo storico di cui ho detto la Sinistra abbia avuto una funzione oggettiva di freno (si può dire di katéchon?), e per ciò stesso una funzione conservatrice, rispetto alla modernità astrattamente considerata. In specie rispetto allo sviluppo tecnico-scientifico- economico, portato dalla sua natura e dai suoi interessi ad obbedire solo ai propri parametri interni. In nome della politica, insomma, la Sinistra – ma insieme a lei anche molto pensiero cattolico novecentesco e il più avveduto pensiero liberale, oppositore di ogni forma di potere illimitato (anche quello dell’industria, della tecnica e del capitalismo può esserlo) – hanno sempre cercato di far valere le ragioni della coesione e della stabilità sociali, dell’equità, della tutela di determinati valori, dell’importanza di salvaguardare alcuni patrimoni storico-culturali. Hanno sempre cercato di far valere, in generale, l’idea che vi sono alcuni ambiti per così dire indisponibili all’azione pura e semplice di ciò che è «moderno» o di ciò che «serve al mercato». Il concetto di «pubblico» contrapposto a «privato» è stata l’espressione più tipica di questa tensione che in certo senso appare consustanziale alla democrazia. La quale però non per questo si è meritata l’accusa di avere una mentalità ostile all’industria o al capitalismo. È ormai storicamente assodato, anzi, che proprio l’azione di riequilibrio svolta dalla politica ha finito per tornare a vantaggio dello sviluppo economico nel suo complesso, e dunque anche a vantaggio dell’attività industriale e al capitalismo in genere.

Ma perché, allora, ad un certo punto è accaduto che la Sinistra (insieme a lei però, è giusto ricordarlo, anche altre culture politiche tradizionali) non è più riuscita a restare fedele alla propria identità storica? Penso che abbiano agito specialmente due motivi. Il primo è che mentre la politica democratica ha conservato una base nazionale, viceversa lo sviluppo economico-finanziario è uscito pressoché interamente dal quadro nazionale, in tal modo limitando gravemente i tradizionali poteri della politica democratica. In questa situazione il nazional-populismo risponde puntando a un esasperato e cieco rilancio/rafforzamento del quadro nazionale. La Sinistra, invece, essendosi illusa circa il definitivo deperimento dello Stato nazionale e avendo puntato da tempo come alternativa sull’ormai paralizzata Unione europea, non sa più che cosa fare né che cosa essere, dal momento che oggi in parte non dispone più, e in parte non crede più, nell’involucro istituzionale – lo Stato appunto – entro il quale finora era abituata a svolgere la propria azione.

Il secondo motivo è che sempre la Sinistra (che anche in questo caso non è sola, dal momento che le fa buona compagnia un certo liberalismo dogmatico), essendosi nutrita fin dalle origini di un radicatissimo storicismo fondato proprio sul significato progressivo dello sviluppo delle forze materiali e della tecnica, non riesce neppure a immaginare che invece – come forse in certo senso sta accadendo oggi – proprio tale sviluppo, arrivato a una certa fase, possa eventualmente perdere il proprio carattere progressivo. E di conseguenza non offrire più alla politica democratica gli antichi margini di compromesso, avviandosi quindi a una deriva socialmente reazionaria. La Sinistra non riesce neppure a pensare che la tecno-scienza e le ragioni del capitale – per giunta una volta che l’epicentro dell’una e dell’altro si disloca in aree geopolitiche non occidentali – possano perdere quello che a lungo è stato il loro antico carattere di veicoli di un futuro migliore.

Si tratta di qualcosa che a molti può apparire impensabile, certo. Ma questo è il tempo in cui, se si vuole pensare, bisogna forse essere capaci di pensare proprio l’impensabile.

CORRIERE.IT

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