Più lontani dall’Europa senza dirlo
Le tensioni tra Italia ed Europa sono giornaliere e sempre più aspre. Ma alziamo lo sguardo dalle polemiche quotidiane. Nei sei mesi trascorsi dalle elezioni, nei tre mesi di vita del nuovo governo come è cambiata la posizione geopolitica del nostro Paese? Secondo quale disegno strategico? Deciso da chi? A vantaggio di chi? L’Italia, uno dei tre grandi Paesi fondatori dell’Unione Europea, ha sempre aspirato a consolidare il proprio ruolo accanto alla Francia e alla Germania in termini di influenza sull’indirizzo della Ue. Non sempre ci è riuscita, per un insieme di motivi ben noti, ma in talune fasi sì. Quando ciò si è verificato, è stato per l’efficacia di alcuni governi italiani nel presiedere il Consiglio europeo in passaggi cruciali e controversi (elezione diretta del Parlamento europeo da parte dei cittadini, nascita del mercato unico, nascita della moneta unica) e per l’impegno di personalità italiane in posizioni chiave delle istituzioni comunitarie. La vicinanza, costruttiva e critica, alla Germania e alla Francia sarebbe particolarmente utile ora, sia perché un governo tedesco meno forte può essere indotto ad una minore rigidità, sia perchè sono sul tavolo il bilancio settennale e la governance dell’economia, sia infine perché l’uscita della Gran Bretagna redistribuisce le carte del potere e la Spagna, zitta zitta, non disdegnerebbe di venire considerata più affidabile dell’Italia. Proprio in questa fase, il nuovo governo italiano assume maggiore durezza, almeno verbale, verso la Ue in generale e verso singoli Paesi, a cominciare dalla Francia e dalla Germania, forse convinto che in questo modo si ottengano migliori risultati concreti.
In realtà, è avvenuto un rapido slittamento. Il Paese che avrebbe potuto installarsi nel terzetto informale di regia con Francia e Germania, con vantaggi per sé e il merito di rendere la Ue più sensibile alle esigenze dell’Europa del Sud, ha scelto invece di crearsi uno «strapuntino Sud» nel blocco «Visegrad Austro-Ungarico», costituito da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, cui si è aggiunta di fatto l’Austria. La priorità assoluta che si è voluta dare alla pur importante questione migratoria ha spinto a cercare alleati in quei Paesi dell’Europa centro-orientale che non vogliono immigrati. Di fronte alla forza evocativa di questo punto, passa in secondo piano che Viktor Orbán e i suoi colleghi non si accollino neppure pochi rifugiati provenienti dall’Italia, abbiano regimi illiberali, non abbiano simpatia per il Sud Europa, siano contrari ad ampliare i poteri e le risorse della Ue affinché la politica europea di controllo dell’immigrazione diventi realtà e sia efficace. Quando ci sarà, tale politica non sarà necessariamente di «porte aperte». Le decisioni spetteranno alla Ue e vedranno coinvolti il Parlamento e il Consiglio, espressione dei governi nazionali. In certe fasi potrà essere relativamente aperta, ma con quote e condizioni, in altre fasi potrà essere rigida, come il «No way» australiano. Ma delle due l’una: o si realizzerà un controllo comune e ben funzionante sulla frontiera esterna, anche marittima, oppure gli Stati membri della Ue torneranno a chiudere i confini tra loro.
Lo scivolamento verso Visegrad si integra con qualche parvenza di uscita dalla Ue. È stata giustamente apprezzata la disponibilità manifestata nei giorni scorsi dalla Chiesa italiana e dall’Albania, oltre che dall’Irlanda. Ma vorremmo un’Italia capace di far valere nella Ue le sue buone ragioni, magari non applaudendo il proprio avversario Orbán, senza dover ricorrere all’Albania o alla Chiesa. Il riposizionamento geopolitico, nonché psicologico, che l’Italia è riuscita a darsi in così poco tempo non pare destinato ad essere di aiuto per le difficili partite economiche e finanziarie che si giocheranno a partire dai prossimi giorni con Bruxelles e con i mercati.
Se non si ritiene di discutere apertamente una strategia politico-economica per il Paese, alternativa al trovare rifugio nel piccolo mondo antico acutamente illustrato ieri da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi su queste colonne, si punti la mente almeno su un rischio da evitare a tutti i costi: il rischio che l’Italia finisca un giorno a non far più parte né dell’area Schengen, né dell’area dell’euro. Stretta tra l’austro-ungarico Orbán a Nord, le tribù libiche a Sud, una Spagna assertiva ad Ovest, e ad Est una Grecia il cui pesante fardello finora eravamo riusciti ad evitare, diventeremmo una lunga e triste penisola di quasi-Europa. Non ritenuta abbastanza affidabile, quand’anche lo desiderassimo, per far parte della noiosa Europa del Nord, l’Italia sarebbe considerata un utile contrafforte del continente europeo, un bastione esterno alla Ue ma capace di attutire l’impatto di successive ondate migrato-rie.
Ma chi ha deciso questo riposizionamento dell’Italia? Non il governo nella sua collegialità. Non risulta infatti un documento strategico offerto alla discussione nel Parlamento e nel Paese. Non certo il presidente del Consiglio, impegnato in ammirevoli esercizi se mai di contenimento tattico e di ardua ricerca di coerenza. Non il ministro degli Esteri, che non questo disegno ha prospettato nella sua audizione programmatica alle commissioni parlamentari. È da escludere, infine, che l’uno o l’altro dei due vice presidenti del Consiglio, figure autorevoli politicamente, possano essersi assunti la responsabilità di condurre di fatto la politica internazionale dell’Italia. Ma può il Parlamento, può il Paese non sapere chi, magari solo per ottenere consensi elettorali, sta spingendo l’Italia verso una meta non dichiarata e in modi non previsti dalla Costituzione?
CORRIERE.IT