Le grandi manovre, e l’Italia?

C’è un’espressione inglese molto appropriata, per caratterizzare l’atteggiamento dell’Italia nell’odierno incontro alla Prefettura di Milano tra il primo ministro ungherese Viktor Orbán e il ministro degli Interni Matteo Salvini: «Sleeping with the enemy», andare a letto col nemico. Come infatti ha spiegato ieri Mario Monti sul nostro giornale, nessuna delle posizioni del premier ungherese coincide con gli interessi dell’Italia in Europa, al contrario esse ne rappresentano plasticamente la negazione. Eppure, fonti autorevoli suggeriscono un altro scenario. Secondo questa versione, l’incontro di Milano avrebbe anche un’agenda segreta. Non sarebbe cioè solo l’estemporanea ricerca di una sponda con il mondo di ieri, per scomodare Stefan Zweig, quello austro-ungarico di Visegrad e Vienna. Ma segnerebbe anche i primi passi di un’operazione spregiudicata, che avrebbe Viktor Orbán come mallevadore: quella di portare la Lega nel Partito popolare europeo. Ci sarà tempo per verificarne la praticabilità, ma anche se così fosse l’attivismo di partito del ministro degli Interni, non può nascondere l’assenza di una riflessione strategica collegiale sull’Europa da parte del nuovo governo, di cui parlava Monti. Altri esempi della cronaca degli ultimi giorni confermano infatti come l’Italia proceda sulla scena europea senza bussola, quasi con occhi bendati, nella migliore delle ipotesi sparando alto, nella peggiore facendosi del male. Nell’uno e nell’altro caso ritrovandosi isolata e soprattutto rinunciando a pesare ed essere presa sul serio nelle partite che si preparano.

Abbiamo appreso dai media tedeschi che Angela Merkel ha rinunciato ad appoggiare la candidatura di Jens Weidmann, attuale capo della Bundesbank, al vertice della Bce oggi occupato da Mario Draghi. La decisione è parte di una strategia della cancelliera, che punta a portare un tedesco alla guida della Commissione europea, considerata centrale per gli sviluppi futuri dell’Unione. Merkel ha confessato a un alto dirigente popolare europeo che il suo candidato in pectore è l’attuale ministro dell’Economia, il fedelissimo Peter Altmaier. Il quale però dovrà vedersela con le ambizioni del cristiano-sociale bavarese Manfred Weber, leader dei deputati del Ppe a Strasburgo.

Ma la questione dei nomi qui interessa di meno. Il punto è che le grandi manovre per il ricambio istituzionale del 2019 sono già iniziate. Oltre al presidente della Commissione e a quello della Bce, devono infatti essere nominati il presidente del Consiglio europeo, il nuovo Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza e il nuovo capo dell’Eurogruppo. Per non parlare dell’elezione del nuovo presidente del Parlamento europeo. Dettaglio non marginale: l’Italia in questa fase è sovra-rappresentata, con Mario Draghi alla Bce, Federica Mogherini come Alto Rappresentante e Antonio Tajani all’Europarlamento.

Non solo la Germania ma molti altri Paesi stanno già muovendo le loro pedine, cercando alleanze, disegnando scenari, costruendo consenso intorno a possibili candidati. Nulla è dato sapere se e come il nuovo governo intenda giocare questa partita. Invece, oltre al caso della Diciotti, la sola cosa per cui l’Italia nei giorni scorsi ha fatto sentire la sua voce in Europa è stata la minaccia del ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico di «non versare più 20 miliardi annuali» al bilancio della Ue se non ci sarà un accordo sulla redistribuzione dei migranti. Che poi 20 miliardi non sono, ma circa 15, di cui 13 tornano da noi via i fondi di coesione e altri strumenti. Nel silenzio assordante dell’inquilino di Palazzo Chigi, il solo ministro Moavero ha ricordato che contribuire al bilancio comune è un «dovere legale».

Certo anche l’allora premier Matteo Renzi nel 2016 minacciò di bloccare i fondi al bilancio dell’Unione e anche lui esagerò sul volume del nostro contributo all’Europa. E questo giornale lo criticò. Ma nulla toglie al problema di fondo degli attuali governanti: invece di mettere a punto una strategia volta a darci un ruolo nella sfida decisiva delle cariche apicali, l’Italia brucia i ponti con gli alleati tradizionali, minaccia improbabili defezioni, costruisce sfiducia, non ultimo bussa alla porta dei nemici in nome di un’affinità ideologica anti-immigrazione, priva di ogni riscontro nei veri interessi nazionali.

CORRIERE.IT

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