Chi evoca i barbari al potere

Come dovrebbe comportarsi una comunità politica di solide tradizioni allorché in libere elezioni prendono il sopravvento movimenti antisistema? Provare ad incanalarli nel letto delle regole continentali come si riuscì a fare in Grecia nel 2015 con Alexis Tsipras? O sbarrare le porte ad ogni loro iniziativa e fronteggiarli con energia, nella prospettiva che la loro spinta propulsiva si esaurisca in tempi rapidi e si torni per vie naturali alla politica precedente? È inoltre conveniente, pur marcando con decisioni alcuni distinguo fondamentali, aprire un dialogo con questo genere di forze politiche? Queste le domande che si sono poste le forze sconfitte alle elezioni del 4 marzo nella complicata estate del 2018. Estate che ha visto esplodere il fenomeno Matteo Salvini in un clima di non ostilità assecondato dal suo partner alla vicepresidenza del Consiglio Luigi Di Maio. Forza Italia e Pd hanno provato, talvolta in modo maldestro, a mettere i vincitori l’uno contro l’altro. Ma ad entrambe le forze di opposizione mancava una plausibile prospettiva da offrire ai movimenti che fanno parte della maggioranza. Così, di queste iniziative per dividerli, è rimasta agli atti solo una qualche goffagine. E sul finire della stagione estiva si sono riproposte le domande di cui all’inizio. In attesa che una risposta chiara venga dai partiti rimasti fuori dal governo, è stata la comunità scientifica che ha cominciato a discuterne.

Il «Foglio» ha pubblicato interviste a due politologi, tra loro amici e solitamente consentanei, che, nel merito della questione, si sono pronunciati in modo opposto. Entrambi, beninteso, animati da uno sforzo di analisi sistemica e tenendo fuori dai loro ragionamenti ogni opzione politica personale. Il primo dei due, Giovanni Orsina, dopo aver evidenziato il proprio sconcerto a fronte di alcune iniziative del nuovo governo, ha offerto la propria ricetta rifacendosi a storie di quindici secoli fa, cioè al momento della caduta dell’Impero romano: la Roma che avevamo conosciuto prima del V secolo non c’era più, «rimpiangerla — avremmo dovuto dire — non servirà a granché», «cerchiamo almeno, allora, di romanizzare i barbari». Barbari giunti al potere per colpa di quelli che avevano comandato prima di loro, i quali — ieri come oggi — nel tentativo di esorcizzare quelle genti venute da fuori, ne avevano mutuato per anni e anni fattezze, linguaggi e movenze. E, in tal modo, avevano spalancato loro le porte della città. Proprio come in anni recenti partiti e intellettuali della Seconda Repubblica responsabili di aver adottato i toni populisti e antieuropei dei loro avversari. Certo, prosegue Orsina, adesso si potrebbe sperare nella crisi dei sovranisti, «attendere il crollo della torre gialloverde fermi con il naso all’insù e il ghigno di chi ci aveva visto lungo». Esercizio nobile per scrittori, personalità di cinema e arti varie, per chi — in altre parole — può limitarsi a manifestare il proprio sdegno nei confronti di questa o quella iniziativa di leghisti e grillini, o anche di tutte, senza doversi fare carico di iniziative che non abbiano una mera valenza simbolica. Ma per chi ha scelto di fare politica, sarebbe forse più saggio sforzarsi di normalizzare i nuovi vincitori costringendoli (o «aiutandoli», a seconda dei casi) a «trovare un compromesso tra il desiderio della palingenesi e gli obblighi della realtà». Impresa, quest’ultima, tutt’altro che facile anche perché, fino a quando avranno il vento nelle vele, i vincitori delle elezioni di marzo non vorranno — si presume — ascoltare gli inviti alla ragionevolezza. In particolare quelli che potrebbero metterli in urto con futuri potenziali elettori.

E perché allora si dovrebbe provare? Il precedente di riferimento evocato tra le righe da Orsina è quello di Odoacre, generale delle truppe germaniche nell’esercito romano che nel 476, a seguito della rivolta che aveva deposto Romolo Augustolo, fu proclamato re dai propri soldati. Formalmente il re barbaro si pose sotto quel che restava dell’autorità di Roma e solo dopo il 480 si dichiarò successore dell’ultimo imperatore, con il consenso del senato romano che, per ingraziarselo, si mise quasi a sua disposizione. Il risultato fu un patto di continuità tra i barbari e le istituzioni dei tempi anteriori alla caduta dell’Impero romano. E, conflitti a parte (ma quelli c’erano stati anche precedentemente), sembrò di vivere in un epoca di cambiamenti relativamente modesti. Odoacre cercò un ulteriore compromesso con Zenone, l’imperatore d’Oriente, di cui — come atto di sottomissione — si dichiarò vicario. L’ottenne quel compromesso. Ma Zenone non stette ai patti e nel 489 gli mandò contro altri barbari, gli ostrogoti di Teodorico. Odoacre si asserragliò a Ravenna assediata dalle truppe di Teodorico, il quale quando ritenne di avere in pugno la situazione invitò il rivale a un banchetto di pacificazione e lo uccise. Anche qui si potrebbero formulare parallelismi tra situazioni di allora e quelle di adesso. Ma fermiamoci alle suggestioni di Orsina. Angelo Panebianco ha risposto al collega con ironia: «Il compito di sgrossare Odoacre lo lascio volentieri al mio amico Orsina… se le cose dovessero andare nel modo da lui previsto, tanto meglio preparare il passaporto per la Papuasia perché io a insegnare a Salvini e Di Maio i rudimenti dello Stato di diritto proprio non mi ci vedo».

Al di là del tono scherzoso, Panebianco prevede che ci sia ancora del tempo dal momento che la vera partita si giocherà fuori dai confini italiani. Laddove esistano Paesi capaci di far crescere al proprio interno forze alternative all’«alleanza tra peronisti e putiniani». Meglio dunque attendere quantomeno le elezioni europee dove si riuscirà (forse) «a evitare il plebiscito a favore dell’internazionale sovranista». Dopodiché è probabile che in Italia si aprirebbe una nuova partita: «non per romanizzare i barbari, ma per scacciarli». L’analisi di Panebianco che è comprensiva nei confronti del marasma in cui versano i partiti di opposizione, in particolare il Pd, è forse più lungimirante di quella del suo collega. Resta però da prendere in considerazione l’eventualità che alle elezioni per il Parlamento di Strasburgo non si realizzi lo scenario da lui evocato. Ed è qui che si torna al tema sollevato da Orsina. Che fare se i pur evidenti conflitti tra Lega e Cinque Stelle non metteranno in crisi il loro governo? E se non arrivasse mai dagli altri Paesi europei la cavalleria intravista all’orizzonte da Panebianco? E se infine la mancata «romanizzazione dei barbari d’oggi» provocasse qui da noi un marasma già in autunno, molto prima cioè che i cittadini europei siano chiamati alle urne? Ma forse il senso più recondito di questa discussione sta nella circostanza che alcuni nostri scienziati della politica, usi in passato a dominare parole e metafore, parlino di Salvini e Di Maio evocando i barbari e Odoacre. Ciò che è già di per sé qualcosa di allarmante.

CORRIERE.IT

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