Il baratto inaccettabile sui migranti
Al 28 agosto, secondo il Viminale, gli immigrati sbarcati in Italia sono stati 1.259, il dato più basso da 5 anni. Meglio anche della gestione di Marco Minniti. Nel 2017 furono, infatti, 3.920. Merito indubbio di Matteo Salvini e della sua politica.
Favorito, però, anche dall’atteggiamento dei partner di governo, i 5stelle, i quali non hanno messo i bastoni tra le ruote del ministro dell’Interno, non lo hanno boicottato sulla chiusura dei porti, né fatto polemiche. Anzi, addirittura, l’ala governativa del movimento ha isolato il presidente della Camera, Roberto Fico, che aveva protestato per la linea seguita da Salvini. Il punto, però, è un altro: quanto è costato e costerà – al vicepremier leghista il silenzio-assenso dei grillini sull’immigrazione, rispetto alle altre questioni di cui è stato – e sarà – investito il governo? Tanto. Forse troppo.
Dalle polemiche sulle pensioni d’oro, dove non si parla solo di quelle da 45mila euro al mese ma anche di quelle da 4mila, in cui i ministri grillini si contraddistinguono per la superficialità con cui viene affrontato il tema all’insegna di una nouvelle vague pauperista; ai danni già provocati dal decreto Dignità sul mercato del lavoro.
O, ancora, dal ritorno dei vecchi modelli dell’economia di Stato attraverso l’ipotesi di alcune nazionalizzazioni, Autostrade e non solo; ad una politica sulle infrastrutture condizionata dalle logiche dell’ambientalismo del tempo che fu. Ebbene, a stare appresso a tutto questo, sembra proprio che il Paese, per alcune ricette pentastellate, abbia fatto un salto nel passato di 30, 40, addirittura di 50 anni. Ora, non è detto che i propositi di Di Maio e compagni, poi, si traducano in atti di governo, ma già solo che siano entrati prepotentemente nel dibattito politico temi, soluzioni, culture che appartengono per lo più alla sinistra massimalista di tanto tempo fa o, per alcuni versi, al Venezuela di oggi, lascia pensare. E quest’immagine che si offre del Paese sta già provocando danni: da una parte i grandi investitori internazionali cominciano a farsi due conti; dall’altra l’Europa ha cominciato a guardare con occhio diverso un’Italia che si è messa in testa di tornare indietro. Intendiamoci, che accada tutto questo ai teorici della decrescita felice, dell’assistenzialismo di massa, del livellamento sociale verso il basso, cioè ai grillini, importa poco. Anzi, è la loro manna. Diverso è il discorso per i leghisti che, guardando alle loro origini, dovrebbero essere agli antipodi. Queste culture, proprie di una certa sinistra massimalista, non hanno mai messo piede nei territori che sono stati la culla del Carroccio, cioè la Lombardia e il Veneto, a parte quei due anni, 1992-’93, condizionati dalle inchieste di Tangentopoli (ci furono in entrambe le regioni giunte più orientate a sinistra). E da quelle parti, al di là dei sondaggi, il grande baratto alla base del governo giallo-verde, improntato su un do ut des tra le politiche dell’immigrazione e la sicurezza tipiche di una cultura, si può dire, di destra, e quelle dello sviluppo, delle infrastrutture, del lavoro che ricordano la sinistra sconfitta di un tempo venti anni dopo, lascia perplessi. Non poco.
Il primo a mettere il dito nella piaga, senza perifrasi, poco più di un mese fa, è stato il presidente di Confindustria Veneto Centro, Massimo Finco: «Non si può far finta di niente di fronte a ciò che sta succedendo per qualche barcone in meno». Un modo brusco per dire: quel baratto non conviene. Da allora le cose sono peggiorate. Eccome. I grillini battono puntualmente cassa per ogni concessione che fanno: Salvini ha potuto mandare in scena, indisturbato, il suo show sulla motovedetta Diciotti, ma due giorni dopo Di Maio, puntualmente, lo ha richiamato, con toni minacciosi, al rispetto del «contratto» di governo sul taglio alle pensioni d’oro. E siamo solo agli inizi: quando si dovranno sciogliere i nodi sulla legge di bilancio, scegliendo tra la filosofia della flat tax e il reddito di cittadinanza, le richieste grilline si faranno più pretenziose in cambio, appunto, di «qualche barcone in meno». Tant’è che il povero ministro dell’Economia, Tria, volato a Pechino per convincere i cinesi ad investire sui nostri buoni del tesoro, è stato costretto a telefonare dai torrioni della Grande Muraglia ai due vicepremier per convincerli a non perdere il senso della realtà. O, si può aggiungere, la propria identità. «Un problema osserva Renato Brunetta – che riguarda la Lega: i grillini non hanno radici, la loro è la cultura raffazzonata del sentito dire; i leghisti, invece, hanno una storia profonda. Sono l’ultimo partito del 900».
E la Storia dovrebbe dare anche qualche altro spunto a Salvini. I leghisti, da quando sono entrati nella stanza dei bottoni, infatti, sono stati attenzionati da una certa magistratura: prima il sequestro cautelativo di 49 milioni euro, che li ha messi in braghe di tela per la campagna elettorale per le Europee; poi, una serie di condanne per «le spese» facili in alcune Regioni (basta pensare al Piemonte); poi le accuse di sequestro di persona, eccetera, per la vicenda degli immigrati sulla Diciotti. Insomma, c’è la stessa atmosfera che si è respirata molte volte in passato in questo Paese. Motivo per cui Salvini è insorto. Parla di magistratura politicizzata, vuole la riforma della giustizia, la separazione delle carriere. Dietro di lui, i suoi. «Sono scatenati contro di noi si sfoga Paolo Tiramani, leghista piemontese da quando siamo al governo. Certo è un atteggiamento che aumenta il consenso per Salvini, ma qualcosa sulla giustizia dobbiamo farla di sicuro. I grillini? Con quanto è successo alla Appendino, alla Raggi, a Nogarin, qualcosa avranno imparato». Propositi sinceri e analisi giusta, fino a quest’ultimo punto. Se c’è una cosa, infatti, che i grillini non possono proprio fare sono interventi sulla giustizia in senso «garantista» (Travaglio, il vigilante, docet): se il Pd ha un rapporto, da sempre privilegiato, con alcuni settori della magistratura, i grillini sono riusciti a stringere un’intesa con gli interpreti dell’anima più giustizialista della magistratura (da Davigo a Woodcock, a Di Matteo). E, ovviamente, non si schiereranno mai contro quel mondo.
Ecco perché Salvini farebbe bene ad immaginare un porto più sicuro, più coerente con la storia leghista.
Dell’incontro con il premier ungherese, Orban, a Milano, si è scritto molto, ma si è capito poco. Orban ci ha tenuto a far sapere di avere chiesto il permesso a Berlusconi. Poi ci sono le congetture di un ex-dc, che è stato vicepresidente del Ppe, Vito Bonsignore. «Se Orban ha incontrato Salvini confida ha chiesto sicuramente l’ok alla Merkel, non fosse altro perché lo ha sempre protetto. E lui nel Ppe, su alcuni temi, è ancor più duro di Salvini. Per cui se c’è posto per Orban nel Ppe, perché non dovrebbe esserci per Salvini: la Csu bavarese ha sempre guardato, soprattutto, ai numeri in Parlamento». Magari è solo una suggestione, ma c’è l’esigenza del porto sicuro.
IL GIORNALE