Pensioni contributive: nel 2036 un insegnante, dopo 40 anni di lavoro incasserà 1200 euro

di Milena Gabanelli e Massimo Sideri

Polveriera sociale per i giovani. E allo stesso tempo privilegio insostenibile per altre categorie, come i cosiddetti baby pensionati che sono circa mezzo milione, costano 9 miliardi l’anno e in molti casi ricevono l’assegno da 38 anni, dopo averne lavorato solo 15. È il bilancio delle pensioni in Italia, sempre in rosso, con tante domande e poche risposte incerte: i trentenni e i quarantenni di oggi che pensione incasseranno quando di anni ne avranno 67? I ventenni l’avranno mai una pensione?
I numeri dell’Inps

Quella delle pensioni è una riforma perenne: ha iniziato Amato nel ’92, e poi Dini nel ‘95. Negli anni tutti i governi hanno affrontato il tema, ma nessuno è riuscito a non lasciare vittime sul campo (come dimenticare i 170mila esodati della Fornero). E con quali risultati? A guardare i numeri del bilancio previsionale 2018 dell’Inps, nelle sue casse entreranno 227 miliardi di contributi (di cui 56 da dipendenti pubblici e 146 da dipendenti privati) e ne usciranno 265 in prestazioni.

La differenza la coprirà lo Stato, ovvero tutti noi. In sostanza i contributi versati dai lavoratori non coprono le pensioni erogate.
La lettura non è semplice, perché i numeri sono disaggregati, ma emerge in modo chiaro che in Italia ci sono cittadini di serie A e cittadini di serie B, mentre stiamo allevando quelli di serie C, i giovani. Oggi il grosso dei pensionati incassa sulla base dell’ultimo stipendio percepito: su 13 milioni e mezzo di assegni previdenziali del settore privato e di quello autonomo, 11,1 milioni sono basati sul vecchio sistema retributivo. Se aggiungiamo, poi, chi incassa l’assegno assistenziale, si arriva a 17,88 milioni. Ebbene, gli importi mensili sotto i mille euro riguardano 12,8 milioni di persone. Poi ci sono i 3 milioni di statali. I pensionati maschi della Pubblica amministrazione (ex Inpdap) incassano un assegno medio di 2.250 euro, contro i 1.250 del settore privato.
I privilegi dei dipendenti pubblici

Una differenza che si spiega con la maggiore stabilità del posto fisso pubblico, ma soprattutto con la prassi di «promuovere» a pochi mesi dalla pensione, proprio perché ciò che contava era l’ultimo stipendio. Lo ha fatto a man bassa l’esercito con il personale militare, mentre la Regione Sicilia mandava in pensione i suoi dipendenti con il 110% dello stipendio. Negli anni settanta e ottanta abbiamo assistito a ogni sorta di eccesso, è evidente che il sistema non poteva reggere. La riforma che segna la svolta parte nel 1996: si incasserà in base a quanto si è versato.

Quanto si incassa con il contributivo

Il nuovo sistema, sulla carta, sembra più giusto. Peccato che nel frattempo il mercato del lavoro si sia ammalato in maniera cronica: la disoccupazione giovanile altissima non permette di avere un posto stabile prima dei trent’anni, se va bene. La Gig economy (così si definisce l’economia dei «lavoretti a chiamata») ha prodotto la frammentazione del percorso professionale e un ridimensionamento dei salari, con conseguente «gig» pensione. Prendiamo un insegnante di scuola media: dopo 40 anni di lavoro oggi va in pensione con 1.550 euro al mese, perché usufruisce ancora del sistema retributivo. Nel 2036 lo stesso insegnante quanto incasserà? Secondo la proiezione Inps (che tiene conto della rivalutazione dello stipendio negli anni), se ha avuto la fortuna di avere un posto fisso a 27 anni, andrà in pensione con 1200 euro! Oggi 3 milioni e mezzo di giovani dai 35 anni in giù hanno un lavoro a tempo determinato, atipico, precario. Dovranno farsi una pensione integrativa se non vogliono rischiare l’indigenza, ma possono affrontarla con uno stipendio che spesso non supera i 900 euro al mese? Qualcuno ci sta pensando?

Una riforma da riformare

Secondo il Rapporto sullo Stato sociale 2011, un dipendente pubblico con 40 anni di contributi versati (di cui 18 entro il 1996) e 60 anni di età, poteva contare su un trattamento pari a circa il 100% dell’ultimo stipendio; un lavoratore privato arrivava al 77%. Nel 2036, un soggetto con le stesse caratteristiche, avrà una pensione pari al 58% del salario. Il Decreto dignità del governo Conte-Salvini-Di Maio non aiuta: ha accorciato a due anni i tempi del precariato, ma se l’azienda ti lascia a casa il mercato del lavoro offre poca mobilità.

Come funziona nel resto d’Europa

Se si va a guardare nel resto d’Europa, si scopre che una riforma così dura l’ha fatta solo la Svezia, dove però c’è una maggiore flessibilità e gli stipendi sono mediamente più alti. In Francia la pensione si calcola sui migliori 25 anni di contribuzione, per esempio dai 37 ai 62, età che permette di ritirarsi a determinate condizioni; in questo modo il sistema garantisce dignità. Nemmeno la rigorosa Germania ha fatto una riforma come la nostra. Certo, in Francia e Germania, i conti e la demografia non soffrono come da noi, ma tenere il punto su questa riforma, senza vedere all’orizzonte progetti realistici per la creazione di nuovo lavoro, ci vuole malvagità. Basta leggere in quale burocrazia annega un giovane che vuole aprire un bar o una pizzeria in Italia, per comprendere come mai molte attività muoiono schiacciate in culla.

Le pensioni assistenziali

Poi ci sono i 5 miliardi per le pensioni sociali e i 17,6 miliardi per quelle di accompagnamento e invalidità civile. Sono a carico dello Stato, e non tengono conto del reddito. Spendiamo un po’ di più rispetto al resto d’Europa, dove però è lo Stato a farsi carico del servizio, mentre noi preferiamo dare soldi, contribuendo così ad alimentare la truffa dei falsi invalidi. I numeri crescono. Fino al 7,5% della popolazione al Centro Sud, contro il 3,1% del Nord. Resta il sospetto che anche queste tipologie di pensioni siano state concesse in alcune Regioni come forma di ammortamento sociale.

CORRIERE.IT

In tutto questo, il tema politico è fermo ai vitalizi dei parlamentari e alle pensioni d’oro. Più che giusto, ma a conti fatti si recupereranno, forse, 400 milioni. Una bella operazione di marketing.

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