Priorità, non rivoluzioni nella legge di stabilità
Le urne elettorali si sono chiuse esattamente sei mesi fa, ma la campagna elettorale è continuata come se nulla fosse accaduto. Annunci, sfide, proclami, ma poche decisioni. Che ne sarà dell’Ilva di Taranto, e della Tav in Val di Susa? Cambieranno, ed eventualmente come, le regole per andare in pensione? I sussidi alle imprese verranno ridotti? Che modifiche verranno apportate al sistema di tassazione? Cambieranno il livello e la durata dei sussidi di disoccupazione? In mancanza di certezze le imprese rinviano gli investimenti e le famiglie non spendono.
Un nuovo governo impiega sempre un po’ di tempo per stabilire l’agenda, ma Lega e M5S quattro mesi fa hanno sottoscritto un contratto dettagliato di ben 50 pagine: a che pro? Evidentemente non sono in grado di decidere, ma ne va del futuro di un Paese che non si è arreso alla crisi e che con fatica cerca di riprendersi. La questione più urgente è la legge di Stabilità. La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, nella quale dovranno essere indicati gli obiettivi per i conti pubblici del prossimo triennio, deve essere varata il 28 settembre, fra meno di un mese. L’Italia non ha bisogno di ulteriori veline, interviste, comunicazioni contraddittorie; i mercati, comprensibilmente, andrebbero in fibrillazione e chiunque abbia contratto un debito, una famiglia per acquistare la casa o un’azienda per acquistare un macchinario, a ottobre pagherebbe una rata più elevata. Questa incertezza, almeno sulle cifre più importanti, va risolta nei prossimi giorni.
Salvini nega di voler portare l’Italia fuori dall’Europa: dice di voler «rifondare l’Europa dal suo interno». Per raggiungere questo obiettivo, nel Parlamento europeo che nascerà dopo le elezioni di maggio dovrà allearsi con chi in quell’assemblea avrà il potere di decidere, cioè con il Partito popolare europeo (Ppe) dove si trovano il suo amico Orbán e i tedeschi della Cdu e Csu. Trovarsi in minoranza in compagnia della signora Le Pen non gli serve. Paolo Valentino (Corriere, 1 settembre)osservava che la designazione, alla guida del Ppe, del bavarese Weber, molto più vicino a Orbán di quanto non lo sia Angela Merkel, offre a Salvini un’occasione. Se poi riuscirà a portare a termine il suo ambizioso progetto di rifondare l’Europa, lo vedremo. Ma se la Legge di stabilità apre uno scontro con l’Europa e con la Germania il suo progetto fallisce: a Salvini non rimarrebbe altra strada che portarci fuori dall’Unione europea. E’ questo che vuole il suo elettorato?
Scrivere una Legge di stabilità senza urtare la Germania e senza venire meno alle promesse fatte in questi mesi è possibile? Forse sì. Lega e M5S dicono di avere tre priorità: flat tax, reddito di cittadinanza e abolizione della legge Fornero. Dopo la tragedia di Genova a queste se ne è aggiunta una quarta che per urgenza le sovrasta: un programma di messa in sicurezza delle nostre infrastrutture, dai ponti, agli argini dei fiumi, alle scuole. Le prime tre priorità si possono realizzare solo violando i parametri europei e facendo salire il debito. La quarta, invece, non è incompatibile con i vincoli europei. Anzi, come vedremo, richiederebbe una Legge di stabilità leggerissima.
Dopo la forte caduta degli investimenti pubblici durante gli anni più bui della crisi, le Leggi di stabilità del 2016 e 2017 hanno rifinanziato i due Fondi ai quali attinge la spesa per infrastrutture: il Fondo Investimenti e il Fondo Sviluppo e Coesione. In totale questi fondi oggi dispongono «a legislazione corrente», cioè con norme che sono già in vigore e a suo tempo furono approvate dall’Europa — di circa 150 miliardi di euro, una cifra molto grande, quasi il 10 per cento del Pil. Di queste risorse per ora non è stato speso neppure un euro perché, quando una Legge di stabilità è stata approvata, le risorse vanno ripartite: quanto al Veneto, quanto alla Sicilia, quanto alle scuole, quanto agli argini dei fiumi. Questa ripartizione richiede tempi lunghissimi, a volte quasi due anni. Ora però è stata completata e si possono bandire le gare d’appalto. Il che non significa che i 150 miliardi possono essere spesi subito. Le opere appaltate impiegheranno anni per essere completate. Ciò che conta però è la certezza di aver vinto una gara, certezza che consente alle imprese di programmare assunzioni e investimenti.
Ripeto: questi 150 miliardi sono già nel bilancio a legislazione vigente, quindi sono stati approvati da Bruxelles e sono compatibili con la discesa del debito, tanto basta ai mercati. Per spenderli non è necessaria una nuova Legge di stabilità. E’ sufficiente far partire gli appalti. In realtà più facile a dirsi che a farsi. La maggior parte delle gare dovranno essere fatte da regioni e comuni, dove la qualità dei funzionari pubblici spesso è scadente. La loro formazione è più giuridica che tecnica e quindi poco adatta a gestire l’appalto di un’infrastruttura. Non conoscendo gli aspetti tecnici si attaccano alle norme e questo è solo garanzia di ritardi infiniti. (Si legga a questo proposito l’incredibile storia del ponte di Bassano, unica opera lignea di Andrea Palladio, che da anni rischia di crollare, raccontata da Giorgio Barbieri e dal sottoscritto in I signori del tempo perso. I burocrati che frenano l’Italia e come provare a sconfiggerli, Longanesi 2017. La gara d’appalto fu annunciata nel 2015, i lavori sono iniziati due mesi fa.)
Anche se gli investimenti pubblici potessero essere realizzati con grande rapidità, non saranno queste opere a far ripartire la crescita. Alcune sono fondamentali (oggi la Gronda di Genova, come dieci anni fa il Passante di Mestre) ma gli investimenti pubblici da soli non sono sufficienti. Negli ultimi trent’anni il Giappone ha speso cifre straordinarie in infrastrutture: la crescita non è mai arrivata, mentre è esploso il debito pubblico. La crescita richiede interventi che liberino «l’offerta»: aumentino la partecipazione al lavoro e la sua flessibilità, inducano i privati a investire, riducano i tempi della giustizia civile e li rendano meno aleatori, liberino le imprese da migliaia di adempimenti costosi e irrilevanti, e così via. Finora quel poco che il governo ha fatto con il decreto «Dignità» si è mosso nella direzione opposta. Il ministro dell’economia è forse più ottimista di me sull’efficacia degli investimenti pubblici, ma penso concordi che i danni alla crescita che deriverebbero dalla cancellazione del Jobs Act o della legge Fornero non possono essere compensati da alcun aumento nella spesa per infrastrutture.
Scrivere una Legge di stabilità accettabile per l’Europa e non dimentica delle promesse fatte è possibile: richiede solo di ristabilire le priorità senza alcuna revisione delle regole europee. Inoltre, come ha scritto Dario Di Vico, una seppur modesta riduzione del carico fiscale e un rafforzamento dei sussidi alle famiglie indigenti e ai disoccupati si potrà fare riallocando un pò di risorse. Flat tax e reddito di cittadinanza devono attendere. Un intervento sarà necessario anche per evitare l’aumento delle aliquote Iva, ma questo non è di dimensione tale da comportare un’inversione nella discesa del debito. Il governo dovrà avere grande cura nel monitoraggio degli investimenti pubblici, se necessario con azioni anche invasive a livello locale, per evitare ritardi.
CORRIERE.IT
This entry was posted on lunedì, Settembre 3rd, 2018 at 07:57 and is filed under Editoriali - Opinioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.