Libia, Ue e interesse nazionale
Gli Stati falliti cessano di essere tali solo se qualcuno riesce a imporre — di solito con la violenza — il disarmo dei gruppi armati che infestano il Paese ricostituendo così il (perduto) monopolio centrale della forza. Accadrà, se accadrà, anche in Libia. La Conferenza che l’Italia vuole organizzare in autunno per contribuire a pacificare il Paese avrà successo o no, verosimilmente, a seconda che ci sia stato o meno, sul terreno, un definitivo chiarimento su chi siano i vincitori e i perdenti, sullo stato dei rapporti di forza fra i principali gruppi armati (della Cirenaica e della Tripolitania). Solo così finiscono i conflitti. Per l’Italia sono in gioco interessi vitali (energia , flussi migratori, eccetera ). È un aspetto — per noi assai importante — della partita libica, la nostra rivalità con la Francia. Una rivalità che conta sia per la cosa in sé (riuscirà la Francia a sostituirci, con i conseguenti vantaggi, nel ruolo di patron della Libia?) sia per ciò che riguarda i più generali rapporti fra i membri dell’Unione europea. Al momento, sembra che i francesi siano in vantaggio: il governo di Sarraj su cui noi abbiamo puntato a lungo è in grave difficoltà mentre il generale Haftar (signore della guerra e boss della Cirenaica), sostenuto dai francesi, appare più forte. Forse non riusciremo a ottenere il rinvio delle elezioni (che vogliono sia Haftar che i suoi sponsors francesi e egiziani) e, per conseguenza, a impedire il probabile tramonto politico di Sarraj.
L’attuale governo italiano, pur impegnato in varie forme di discontinuità rispetto alla tradizionale politica estera italiana, sul dossier libico ha invece confermato una linea già adottata dai precedenti governi Renzi e Gentiloni (salvo su un punto che poi dirò). A conferma del fatto che esistono interessi nazionali permanenti, i quali restano tali chiunque sia di volta in volta al governo. Il dossier libico mostra quanto sia stato inadeguato in passato, e quanto lo sia oggi, il modo in cui noi italiani ci atteggiamo nei confronti dell’integrazione europea. Siamo solo stati capaci di passare da un estremo all’altro, dall’europeismo acritico all’antieuropeismo altrettanto acritico: due posizioni, entrambe, sbagliatissime. Lasciando da parte gli addetti ai lavori (i diplomatici), noi italiani – classe politica e opinione pubblica – non siamo mai riusciti ad assumere in Europa la giusta «postura», una posizione equilibrata capace di tutelare al meglio i nostri interessi.
Si guardi al comportamento della Francia nella vicenda libica. Furono i francesi (con Sarkozy) a volere l’intervento (del 2011) contro Gheddafi. Buttati fuori dalla Tunisia (loro tradizionale cliente), a seguito della rivoluzione, decisero di rifarsi in Libia a spese degli italiani. Proprio loro che più di tutti vollero «fare fuori» Gheddafi oggi sostengono (con Macron) il generale Haftar che ha dietro di sé tanti nostalgici del vecchio regime . A riprova del fatto che la Francia sa perseguire nel modo più spregiudicato il proprio vantaggio. E noi? Noi ci accodammo a un intervento della Nato che era contro i nostri interessi. Ricordate quei giorni? Una gran parte del Paese si schierò con entusiasmo a favore dell’intervento militare al solo scopo di colpire Berlusconi, allora capo del governo. Costoro mentirono spudoratamente sostenendo che solo Berlusconi (il famoso bacio dell’anello) era stato amico del dittatore. In realtà, tutti i governi italiani, di qualunque colore, consapevoli dei nostri interessi, avevano cercato di avere relazioni amichevoli con Gheddafi. In quel frangente, troppo impegnati a prendere a pugni Berlusconi, molti non si accorsero che stavano prendendo a pugni (a beneficio dei francesi) anche se stessi. La prima differenza è dunque che mentre la Francia ha sempre saputo fare (o per lo meno ci ha provato) il proprio interesse nazionale, gli italiani, presi dalle loro ottuse faziosità, sono a volte capaci di dimenticare il proprio.
Questa vicenda segnala però anche un problema più generale. Per decenni – traumatizzati dal ricordo della sconfitta nella Seconda guerra mondiale – abbiamo proposto alla nostra opinione pubblica un’immagine irrealistica dell’integrazione europea. Irrealistica e acritica. L’abbiamo santificata. Ci siamo raccontati che l’integrazione metteva fuori gioco la necessità dei governi di perseguire i propri interessi nazionali. Abbiamo sovrapposto il falso al vero. È vero che esiste un «interesse europeo» , un interesse comune, di tutti, alla cooperazione sempre più stretta. Ma era ed è falso che il suddetto interesse europeo sia in grado di «superare»/inglobare senza residui gli interessi dei singoli Stati. In Europa, invece, ci sono sempre state sia cooperazione che competizione: a volte i vari interessi nazionali coincidono (è il minimo comun denominatore detto interesse europeo) e a volte divergono. La Francia, con una certa coerenza, ha per lo più saputo conciliare perseguimento dell’interesse europeo, dell’integrazione, e affermazione dei propri interessi nazionali. È un equilibrio che noi non siamo mai stati capaci di trovare. Nemmeno ora che il pendolo è passato dall’europeismo acritico all’antieuropeismo. La parte del Paese rappresentata da questo governo pensa che sia possibile perseguire il nostro interesse solo se ci contrapponiamo frontalmente all’Europa, se trattiamo l’Europa da nemico. Ma neppure questa scelta va a nostro vantaggio.
È evidente, ad esempio, che nella vicenda libica dobbiamo cercare un compromesso con la Francia. È un passo in quella direzione il recente incontro fra il nostro ministro degli Esteri Moavero e il generale Haftar. Neanche i francesi possono combinare molto se non si accordano con noi. Così come non serviva un tempo fingere che non esistesse un interesse nazionale italiano distinto dall’interesse europeo, non serve ora fingere che sia possibile difenderlo facendo a meno dell’Europa e, nel caso libico, cercando solo la rissa con la Francia (o meglio: la rissa può andare bene ma solo a patto che poi sfoci in un compromesso). Una tutela sapiente dei nostri interessi in Libia esige una visione realistica dell’integrazione europea e del nostro modo di parteciparvi. Chissà se un giorno ci sarà qualcuno capace di proporla all’opinione pubblica.
CORRIERE.IT