Tutti i numeri del documento che allarma gli investitori

Chi lo conosce bene, racconta che Mario Draghi non si separa quasi mai da un rapporto dell’Ocse, estratto di un lavoro più ampio.

Alla bisogna, lo consulta come una specie di breviario delle preoccupazioni. Sono meno di 20 pagine, fatte di soli grafici con scarne note a margine, ma sufficienti per delineare un paragone impietoso tra l’Italia e gli altri soci del club G-7. Gli altri, sempre sopra di noi; noi, miseramente appiattiti sul fondo tranne quando si tira in ballo la disoccupazione. Serve, quel bignamino macroeconomico, a rafforzare nel presidente della Bce una convinzione: non sono mai abbastanza le esortazioni rivolte ai governi a fare le riforme strutturali, a non deflettere dal compito di mantenere dritta la barra dei conti. Lo ha fatto anche giovedì scorso, l’ex governatore di Bankitalia, con parole insolitamente dure per un banchiere centrale addestrato all’understatement. Segno di un’irritazione crescente contro il chiacchiericcio inconcludente e ondivago del governo, che danni ha già fatto a famiglie e imprese attraverso la scalata dei rendimenti sui titoli pubblici.

Il cambio di passo invocato più volte da Draghi, con il richiamo a parlare meno e fare di più, è il pilastro su cui costruire un altro modello di sviluppo, in cui la crescita economica si può coniugare con la lotta a un debito pubblico crescente. È il modo per uscire dal quadro con cui l’Ocse ci dipinge come un Paese ingessato. O, ancor peggio, già in palese sofferenza ancor prima del deflagrare della crisi dei mutui subprime. Di sicuro, l’occhio esperto di Draghi si sarà soffermato più di una volta sulla deprimente situazione, messa in evidenza dal rapporto, della produttività tricolore. Che, come diceva Paul Krugman, «non rappresenta tutto, ma a lungo termine è quasi tutto. La capacità di un Paese di migliorare il proprio tenore di vita nel tempo, dipende quasi interamente dalla sua capacità di aumentare la produzione per lavoratore». Ma quella è anche la spia di investimenti non fatti, di competitività insufficiente, di nuove idee e innovazioni tecnologiche non trovate, di una carente organizzazione del lavoro. Buchi che poi impediscono la crescita dei salari, un altro fattore critico più volte sollevato dal presidente della Bce. Perché, alla fine, attraverso un aumento della produttività delle buste paga si genera un volano in grado di stimolare l’intera economia. A beneficiarne sarebbe anche la struttura di welfare, fino al punto – magari – di avere le risorse per riformare la legge Fornero sulle pensioni.

Il rapporto è impietoso su tanti indicatori. I grafici, che rendono visibile e immediata la debolezza italica, confrontano le performance dei Paesi del G7 in un periodo temporale per lo più compreso tra prima e dopo la crisi. Per esempio, la produttività: è il grafico più impressionante perché l’Italia è l’unica che era ferma nel periodo 2001-2007, e che lì è rimasta anche tra 2011 e 2017. E sempre a quota zero: la crescita media annua dell’intero periodo è 0%. Nessuno male come noi. Tutti hanno peggiorato (Germania da 1,4% è scesa a 0,8%; Francia da 1,2 a 0,8%), ma nessuno è mai stato a quota zero.

Lavoro: in Italia il rapporto tra nuovi lavoratori part time e totale dei lavoratori nel 2007 era del 5%, come Germania e Francia. Ma mentre nel 2017 i tedeschi migliorano scendendo fin quasi al 3% e i francesi peggiorano all’8%, noi precipitiamo all’11%, più del doppio del dato di partenza.

Questi dati, assieme a indicatori quali il livello dell’istruzione, la preparazione scientifica o l’ambiente, completano il quadro di una nazione che si porta dietro ataviche debolezze strutturali, che la crisi non ha che messo in evidenza. E che gli ultimi governi non hanno saputo affrontare.

IL GIORNALE

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